"FUSSATOTI RITORNATE VIRTUALMENTE ALLE VOSTRE ORIGINI"

 

 

Vecchi Mestieri che non esistono più

U stimaturi

Una delle figure più interessanti e di maggior riguardo era quella del, diciamo così, tecnico - pratico capace di valutare un bene mobile o immobile : u stimaturi, appunto .

Le precisazioni sono necessarie e se ne comprenderà la ragione.

Valutare un bene mobile: a) arnesi ed attrezzi agricoli, b) animali domestici di grossa e piccola taglia, c) prodotti dell'agricoltura.

Per valutare un bene immobile bisognava aver presenti determinati parametri di valutazione: bene destinato alla vendita, destinato agli eredi, agli eredi per successione; d) terreno agricolo o e) fabbricato.

Naturalmente gli specialisti erano diversi e di altrettanto diverse capacità; così come potevano essere diverse le retribuzioni per le prestazioni, sia pure, occasionali, ma impegnative.

Va precisato che la stragrande maggioranza di queste figure erano dei SIGNORI, SIGNORI di assoluta e provata onestà, ma c'erano anche, soltanto qualcuno, probabilmente, che pendeva dalla parte del padrone o del lavoratore.

La valutazione (stima) normalmente era finalizzata ad un fine immediato che veniva comunicato alla persona incaricata: stimaturi.

a) arnesi ed attrezzi agricoli, venivano valutati, da un agricoltore tenendo presente il loro stato di usura e le possibilità d'utilizzo nel nostro ambiente .

b) animali

b1)di grossa taglia: l'agricoltore o il macellaio a seconda della destinazione e dei parametri di valutazione. Una vacca azzoppata, per es., era destinata alla macellazione ed aveva, quindi un valore proporzionatamente inferiore ad un animale della stessa età. Si valutavano: l'età, la prolificità, la capacità produttiva di latte; l'adattabilità e la versatilità al lavoro (per es. per una vaccina: carro, aratro, traino). La traduzione in valuta si faceva con riferimento ai valori dell'ultima fiera di bestiame .

b2)di piccola taglia: si valutava il peso, la capacità di produrre lana (per le pecore); la prolificità e l'età.

b3) animali da cortile e pollame: si valutava il peso e l'età

c) prodotti dell'agricoltura:

c1) già raccolti

c2) da raccogliere

valutazione in peso o in volume a seconda del tipo di prodotto utilizzando sia il sistema metrico decimale che il sistema di pesi e misure locali: tuminu, cafizzu, sarma, canna, etc.

d) Terreno agricolo:

destinato alla vendita: valutazione del suo valore reale, all'istante. Stessa valutazione anche per le cosiddette vendite differite, cioè con versamento immediato di caparra, e saldo in tempi stabiliti, ma con immediata presa di possesso.

destinato agli eredi: la valutazione veniva fatta in virtù delle possibilità di sviluppo sia delle piante, in essere, che delle successive possibili trasformazioni e destinazione d'uso.

A queste operazioni provvedeva un perito, non necessariamente alfabetizzato: era sufficiente la sua capacità e ne garantiva la sua fama di onestà. Lo stesso perito una volta valutato il tutto, appezzamento per appezzamento, formava le colonne (le particelle) a seconda del numero degli eredi e sentiva e concordava con il perito addetto alla valutazione dei fabbricati, rurali e civili, portando quindi le conclusioni al committente.

I "periti" venivano, in ogni caso, retribuiti, magari concordando scambio di prestazioni e regalie varie di una certa importanza.

e) Fabbricati : la valutazione prevedeva sia la qualità e l'anzianità della costruzione, nonché la posizione e la vicinanza al centro abitato

I fabbricati venivano valutati da un capomastro (ora Tecnico edile, Geometra, Ingegnere, Architetto). Ve n'erano alcuni specializzati a considerare i fabbricati rurali in virtù delle necessità e possibilità d'uso; ed altri a considerare, meglio, le case di civile abitazione.

La valutazione comportava misurazioni e calcoli vari e i "periti" venivano retribuiti in denaro e, costava parecchio ogni loro prestazione; alcuni si sono arricchiti, ma senza speculazioni, però con l'onesta paga.

Non saprei se ancora oggi vi sia qualcuno, almeno tra i giovani, capace di attribuire, in maniera molto prossima alla verità, il valore di un bene. E' facile ricorrere ai "Tecnici" con tanto di titolo, i quali però, per onor di firma devono essere molto ben retribuiti e, soltanto, in liquido e, hanno, di solito, il carnet sempre pieno di impegni, quindi rimandano, rimandano le conclusioni.

Proprio bambino bambino, credo intorno ai sette anni, ho avuto qualche lezione da parte del nonno materno. Ricordo, con grande nostalgia, soltanto qualcuno dei suoi consigli:

prendeva in mano un rametto di olivo con alcuni frutti, contava i frutti, e le diversificazioni in altri ramettini …e, quindi, mi insegnava a fare gli sviluppi: tanto per ramettino, tanti ramettini, un rametto, tanto rametto, un ramo…l'intero alberi, più alberi.

O per un cumulo di prodotti agricoli: patate, per es.: sette patate di questa grossezza, dodici, venticinque riempiono un cestino; un cestino pesa tanto, tot. cestini, tanti kg.

O di fagiolini freschi: tanti baccelli…etc…

Insomma avevo imparato qualcosa e, credo, che il senso delle misure mi sia rimasto bene impresso, grazie a quel nonno!

Accadeva, non di frequente, ma accadeva che non si accettassero le conclusioni del perito. Si nominava un altro e tutt'e due insieme, di perfetto, comune accordo, nominavano un arbitro con poteri di decisione. Aveva, infatti, il diritto di ripetere le operazioni di stima o di valutare quelle presentate, accettarle o modificarle.

U furgiaru

Al censimento del 1951, in paese, ve n'erano almeno due.

Uno, (a) che potremmo definire meglio maniscalco, (che aveva almeno dodici figli, tutti viventi all'epoca; alla fine, pare, abbia raggiunto il numero di q u i n d i c i!),

l'altro, (b) un po’ più specializzato, quasi un meccanico capace di produrre pezzi di ricambio artigianali anche di notevoli difficoltà.

(a) - (b): più o meno gli stessi attrezzi ed arnesi, lo stesso bancone in robusti assi metallici, la stessa incudine e l'attrezzatura per fare il fuoco: “sudate ferri a temperar metalli”, solo che (a) provvedeva a soffiar sul fuoco con un mantice, mentre (b) utilizzava un attrezzo - ventilatore a manovella, più comodo e funzionale, meno ingombrante e che richiedeva minore forza e manutenzione, ma rumoroso e, stridente.

L'energia calorica veniva prodotta da carbone di legna (quello minerale: litantrace, antracite… e chi lo conosceva…lo si studiava a scuola, beato chi poteva) e, il carbone di legna veniva prodotto sul posto, spesso dagli stessi artigiani, capaci anche di fare i carbonai.

Il maniscalco, all'occasione diventava anche veterinario; suggeriva rimedi e consigli alimentari per i quadrupedi da lavoro, indirizzava la scelta del tipo di ferratura. Effettuava, periodicamente visite dentistiche ai quadrupedi maggiori, s'intende!

L'officina di b (a forgia) che era anche provvista di un trapano di precisione a manovella, era molto vicina alla mia abitazione per cui già da bimbo la frequentavo ed ero anche diventato una forza lavoro: in uno sgabello ad altezza giusta e ben protetto, mi divertivo a far girare l'organismo - ventola agli ordini dell'aiutante; quest'ultimo, poi, di sua iniziativa (guai quando era necessario l'intervento del mastro) riforniva il carbone, ad aggiungeva acqua ai recipienti per la tempera (*), sceglieva gli arnesi da usare (mazza, mazzetta, mazzola, marteddu, martillina) porgendo al mastro ed afferrando il suo.

Il mastro con la sinistra reggeva la pinza con il pezzo da modellare ed usava con la destra l'attrezzo adatto, di solito più leggero e con il manico più corto, logicamente.

I colpi si susseguivano a ritmo costante e serrato ndin, il colpo del mastro, ndaan, il colpo dell'aiutante, più forte, ben assestato, perfettamente in verticale. Ndin….ndaan. Ndin…ndaan .

Esternamente alle forgia c'erano delle attrezzature in legno necessarie per la ferratura:

per i bovini: una sorta di castello di robuste travi di legno ed alcuni arganelli che consentivano ad, almeno due, fasce di cuoio, di sollevare l'animale: sollevato da terra…non era più pericoloso e quindi si potevano afferrare i piedi e girarli a pianta verso l'alto.…il ferro deve star tra la pianta del piede ed il suolo, per evitare l'usura eccessiva delle unghie e conseguente zoppia!

Più in là negli anni, già studenti liceali ed universitari abbiamo imparato:

- per i mammiferi, quadrupedi o bipedi, la natura (il Creatore) ha disposto che soltanto il treno posteriore sia unito e completo: articolazione acetabolica e sinfisi pubica, mentre quello anteriore , scapolo-omero-clavicolare resta aperto ….e che…. la forza, la spinta… deve scaricare a terra, o fare "leva" a terra, per cui, quando tutto il peso del corpo è " appeso" non c'è " momento di scarico" e non si può esercitare alcuna forza!

I grossi quadrupedi appesi, restano appesi senza manco riuscire a dondolarsi….quindi non possono fare male…. Mente si fa loro del male: " ferratura, male necessario!"

Per gli equini: non era necessario usar le fasce; bastava torcere l'orecchio e tenerlo stretto dentro una morsetta di legno (asini). Da ciò è venuto il modo di dire pigghinci a ricchi, cioè tienilo buono.

Ma per gli uni e gli altri si usava una sorta di treppiedi sul cui fare appoggiare la zampa da limare, sia i chiodi del ferro, che dovevano fuoriuscire dall'unghia, che l'unghia stessa e ciò non per ragioni estetiche! Bisognava proteggere l'animale dal pericolo di ferirsi con la sue stesse … mani.

I ferri avevano, naturalmente, la forma dell'unghia, ma i chiodi erano di diversa lunghezza, seppur sempre di forma affusolata e vagamente quadrangolare: più corti per i bovini perché l'unghia e meno spessa, più lunghi per gli equini; avevano la punta leggermente " storta" ed dovevano essere infissi in modo che spuntassero fuori dell'unghia senza toccare parti sensibili (normalmente con tre colpi…secchi) …. Altrimenti! Quindi la limatura.

Solo i ferri delle zampe anteriori del cavallo, oltre alla loro caratteristica forma, avevano un bordo, al centro anteriore, rialzato a triangolo, per appoggiar meglio sull'unghia ed aiutare a trattenere il peso dell'animale durante lo sforzo, soprattutto per il lavoro di traino.

Per i bovini non era consigliabile ferratura nel periodo della trebbia, proprio per evitare scivoloni sulla superficie levigata dell'aia. Uno scivolone, mentre l'animale è al giogo, potrebbe portare conseguenze anche definitive!

(*) La tempera: il materiale arroventato che ha preso forma battendolo con pesanti martelli sull'incudine, tenuto fermo da una grossa e lunga pinza metallica, dal mastro che lo adattava… per dargli il colpo giusto, muovendo la pinza, una volta raggiunta la forma definitiva, ma ancora rosso di fuoco veniva immerso nell'acqua fredda. La violenta perdita di calore - immaginiamo, ora, il conseguente vapore acqueo: gli occhi, il respiro ….ed il cambio, anch'esso violento, del colore dal rosso fuoco, al bruno scuro… restava, per me, e credo anche per tanti altri bambini, pieno di fascino, di mistero, ma era la tempera che, rendeva più duratura l'opera.

Un pezzo non temperato era ferru moddu. Tenero, che si usurava facilmente.

A proposito di ferratura:

ricordo degli anni universitari, veniva definita male necessario, con questa spiegazione. Male perché s'interveniva con protesi ed aggiunte artificiali sulla vita degli animali; necessario perché le unghie (che sono anche organi di difesa), tendevano a consumarsi esponendo quindi la parte fibroso - muscolare, quindi ricca di nervi di senso, del piede a malattie e dolori.

A proposito di….. gesti scaramantici.

Non erano pochi i proprietari o gli accudenti di bestiame che chiedevano il ferro vecchio della zampa anteriore sinistra. Usavano appenderla sull'uscio di casa, non facilmente visibile (altrimenti il "malocchio" entra), ai confini dei terreni, orti, giardini. Alcuni, del tutto lo facevano appendere al collo delle mucche, nel periodo di allattamento, o al cane della mandria, o al montone, al caprone .

Ultimamente - siamo già negli anni '50 - anche nella parte interna della portiera di un autobus di linea. Mah! C'era anche chi lo portava in tasca. Sceglieva il più leggero, immagino.

Nelle due officine si realizzavano anche arnesi ed attrezzi per il lavoro dei campi: zappe, picconi, scuri, coltelli, vomeri … e, si provvedeva a zzariari (semplicemente, acciaiare; aggiungere a fuoco, dell'acciaio). L'acciaio era un prodotto industriale quindi si comprava in Città a lastre, a fogli, a blocchi di varia forma e dimensioni.

L'operazione avveniva facendo arroventare prima l'attrezzo, poi appoggiandovi sopra il pezzo d'acciaio, che aderiva per effetto del calore e, dopo aver di nuovo arroventato, battere dovutamente sull'incudine per fare aderire perfettamente: alla fine " un tutt'uno".

Non si deve dimenticare che quest'artigiano (u furgiaru, nel senso di maniscalco) spesso esercitava anche parte della professione di Veterinario; diagnosticava qualche malessere ai bovini ed equini.

Sapeva riconoscere a botta i sangu, il repentino e pericoloso aumento della pressione arteriosa, e, consapevole e responsabile provvedeva a fare il taglio per il salasso (sagnari); applicava, legandolo alle corna ed alle orecchie un grosso bastone che tenesse la bocca spalancata… nei casi di gonfiore esagerato dello stomaco - ventre si riteneva che gran parte dell'aria contenuta nell'apparato digerente, fosse costretta ad uscire…liberando l'animale dalla sofferenza.

E, non è stato raro qualche momento di tenerezza poetica in cui il maniscalco parlava con l'animale, lo rendeva docile e gli praticava il rimedio e quand'anche fosse doloroso o fastidioso, il malato rispettava la consegna e la fiducia con docilità.

U tinturi

Era un mestiere (professione sarebbe meglio) ricercato e ben pagato. Naturalmente i segreti dell'arte venivano conservati in famiglia e si tramandavano di generazione in generazione.

L'avvento e l'attuazione di nuove tecniche industriali (il benessere) nonché le difficoltà proprie del lavoro hanno, purtroppo, orientato verso altre mete i giovani, abbandonando e, ora direi anche, dimenticando quel filone tecnico - culturale.

Rimane appena il soprannome, legato a qualche giovane, il quale

però, non conosce neanche il motivo.

I segreti del mestiere: materie prime naturali, risorse locali.

La campagna con i suoi colori, le colline e le valli con le loro sfumature, le fonti di ispirazione. Le erbette, i fiori, il fogliame degli alberi, la loro scorza, nonché, talvolta anche lo " sterco" degli animali, le materia prime per ottenere una varietà di sfumature cromatiche da fare invidia alla miglior tavolozza

La famiglia di questi artigiani viveva, quasi in simbiosi, con le maestre tessitrici; da loro riceveva gli ordini, con loro concordava le tecniche, da loro riceveva ….il quanto per vivere e vivere bene.

Alla maestra veniva affidata la "commissione" e le si lasciava piena ed assoluta libertà nelle scelta del filato, tessuto, colori, qualità del lavoro finito; poteva quindi stabilire quantità e qualità delle materie prime e tempi di lavorazione, comprendendo anche quelli necessari alle operazioni di cardatura e tintura, ma aveva la sensibilità (rispetto per il lavoro altrui) di non interferire sull'operato dei collaboratori.

In fondo, sia la cardatura (la donnetta che cardava lana e cotone) che la filandera (colei che filava) che u tinturi (chi dava i colori. Al femminile ricordo a tinturedda, probabilmente figlia, o nipote dell'artigiano) non erano che "collaboratori" della tessitrice.

U tinturi, dunque dava colore e vita al filato inerte, mentre la maestra dava vita al tessuto.

Ricordo, prima del 1940, una viuzza (vinedda) con una gran quantità di grandi caldaie di rame, sui tripodi, a far bollire filati di vario colore; u tinturi (un'immagine ormai talmente lontana… quasi evanescente) che di tanto in tanto affacciava per dare un'occhiata e rimescolava i filati in ciascuna caldaia, ognuna con il suo bastone levigato, mentre la figliolanza si affaccendava a dar fuoco…di legna, naturalmente.

Non ho avuto la possibilità di sapere del fissatore dei colori, né delle tecniche per ottenere le polveri, ma ricordo benissimo le scatole dov'era contenuto e la materia da cui proveniva….per sentito dire dagli interessati, in prima persona.

La natura forniva tutto, sul posto, o quasi tutto; l'ingegno e la tradizione consentivano la trasformazione.

I colori si ottenevano:

- il rosso

da una terra rossiccia, finemente tritata e mista a polvere di peperoni rossi e di pomodori maturi spellati ( bolliti, tritati, passati al forno, ridotti in polvere e mescolati alla "terra rossa") .

altre tonalità del rosso

fiori di sulla, rose, fiori e succo di melograno, succo delle more di gelso nero con more di siepe ( in che proporzioni?) - foglie di cipolla mescolate alla terra e fatte macerare prima della bollitura, davano un bel colore … quasi fuxia, o , rosso vivo.

- il blu scuro

foglie e bucce di melanzane; foglie e scorza di ontano bruno.

- il marrone scuro

l'acqua nella quale erano stati a macerare ( per quanto tempo? In che proporzioni?) gusci del frutto giovane di noce con il mallo, scorza di castagno vecchio, scorza di quercia vecchia.

- il verde

Chiaro: (verde pisello) acqua dei sepali di margheritine selvatiche; acqua del guscio di mandorle verdi;

Scuro: acqua del macero di foglie di lauro.

Scuro brillante (bottiglia) foglie di vecchi olivi, di agrumi, di edera.

- il malva

acqua dei fori di malva: dal violaceo al fuxia, una volta si diceva grammaticalmente esatto violacciocca.

- il viola: (o comunque blu scuro) petali del giglio viola.

- il giallo oro brillante

tuorlo d'uovo, fiori di ginestra, petali di margheritine selvatiche, fiori di lupinella.

- il nero

l'inchiostro ottenuto dall'uvetta dell'edera; finissima polvere di carbone vegetale, polvere di ghiande di quercia torrefatte.

- blu scuro, quasi nero acqua della scorza e foglie di vecchie querce.

- marrone scuro, quasi nero acqua della scorza e della foglie verdi di vecchi castagni;

- il bordeaux (vinaccia)

i graspi delle vinacce di uva nera, bolliti insieme al filato.

Poteri sbiancanti venivano attribuiti ai fiori di acacia, di gelso bianco (ed al succo delle more di gelso bianco), ai petali del giglio bianco che venivano usati anche per " sbiadire" colori densi.

Naturalmente, fissati i colori, e conservati con molta cura, essi, poi, potevano esser mescolati per ottenere quelli più scuri, più densi o più tenui, e, proprio in questo, il " maestro tintore" dimostrava le sue grandi doti di artigiano- artista, che sapeva bene come mescolare colori base per ottenere composti e tonalità .

Per il color nero (lutto!) negli ultimi tempi era stato introdotto un prodotto industriale cosiddetto tubbulinu; una bacchetta di composto duro che veniva grattato e ben mescolato all'acqua, quindi messa a bollire assieme agli indumenti…. Ma quest'operazione era talmente semplice che la si faceva in casa, ognuno per sé.

Forniture per altri usi

U tinturi forniva agli operai addetti a segare grossi e lunghi tronchi di legname da trasformazione (detti chianchi, sing. chianca) la polvere rossiccia necessaria per usare la cordicella di lana .

In pratica una cordicella di fili di lana filati grossolanamente bagnata (per dire) nella polvere e tesa tra le due estremità, lasciata cadere violentemente sul tronco, già sfaccettato, marcava dei segni perfettamente rettilinei e …paralleli: esattamente quanto serviva agli operai per poter orientare il taglio Ma sentivo dire, se ricordo bene, che il maestro realizzava anche tinture (o misture varie) per capelli; giammai, però, per cambiar (diventar biondo, per es. Il color chiaro tendente al biondo non era tenuto in buona considerazione presso gli uomini) colore, quanto per mantenerli neri…. O. impedire che diventassero bianchi. Ora non saprei se quanto ricordo possa essere stato riferito come fatto reale o piuttosto come commento malevolo …. Blà, blà,blà….

Comunque si diceva che mescolasse gli escrementi di colombi con polvere di carbone di legna … per un bel nero naturale.

Il color biondo - repetita juvant - era a malapena accettato per le belle ragazze, probabilmente meno per le mamme. Aver capelli rossi o rossicci…, eh ! ,… talvolta era anche una disgrazia!

U Maialinaru

Anche questa una fonte di reddito scomparsa !

Esiste oggi la castrazione (maschile e femminile) ormonale, del tutto in serie, con medicinali che bloccano la produzione di ovuli o di sperma già direttamente nel mangime.

Nell'ambiente agricolo contadino era necessaria la castrazione cruenta per tutti gli animali destinati all'ingrasso, maiali soprattutto.

Non si praticava alle vacche e alle pecore e capre per evidenti ragioni: latte!

Per i torelli e gli equini era necessaria una particolare attrezzatura e capacità superiori.

La prestazione, quindi, maggiormente richiesta, era quella per la castrazione dei suini. Solo alcuni e nelle stalle di campagna mantenevano sia il verro che la scrofa , maschio e femmina destinati alla riproduzione; e, questi erano anche allevatori e commercianti di lattonzoli, maialetti e maiali già ingrassati o adulti.

Majalinaru: uomo esperto nella castrazione dei maiali.

In paese ve n'erano tanti, ma spesso, per le campagne girava un uomo con un trombetta con la quale si annunciava; credo venisse da uno dei paesi vicini. La castrazione cruenta era effettuata senza particolari precauzioni igieniche. Così: con un coltello affilato si apriva la parte estraendo gli organi riproduttori (testicoli per i verri ed ovaie per le scrofe). Una passatina di olio con una pezzuola o un po’ di sugna per evitare infezioni...e, le bestie vivevano!

Oltre alla trombetta, necessaria per farsi sentire, l'esperto, portava anche un piccolo bidone di latta per l'olio; per la paga. E sì! Perché era il mezzo di pagamento più comodo e facile; di denaro contante pochi disponevano, soprattutto nelle campagne. Eh poi, a che serve il denaro se non c'è nulla da poter comprare?

L'operazione: l'animale veniva legato una zampa anteriore con l'opposta posteriore, da ambo i lati; veniva legata la bocca chiusa, per evitare che le zanne potessero provocare danni e, si procedeva con naturalezza, magri all'ombra amica di un albero.

Finito il lavoretto all'animale si rendeva la libertà, mettendolo in stalla, però, o legandolo alla catena. Qualche giorno di convalescenza e poi tutto normale.

L'arte veniva appresa, senza studi universitari: si seguiva un maestro, si imparavano le mosse e si procedeva senza licenza o autorizzazioni .

U bbandiaturi

- Bbandiaturi: persona preposta a dare annunci, fare il bando... gridare.

- Bbandu: bando, grida, annuncio, comunicazione.

C'erano due persone che si ricordano (Paulu l'africanu e Portulisi), sembra pagate anche dal Comune, per dare gli avvisi importanti alla popolazione. Tornando un pò indietro negli anni (40/50), in assenza di mezzi di diffusione, gli avvisi venivano fatti dal prete nelle messe festive ma non tutti ascoltavano... molti, non udivano.

Gli avvisi importanti ed urgenti venivano comunicati dai bbandiaturi i quali ciascuno nella sua zona, sul far della sera, con voce altissima: bbandu!....bbandu!...bbandu!..: mastru ... vindi pumadora; vernaddi veni u vitirinariu: l'avviso: bando doveva ripetersi tre volte, per esser certi che veniva udito da tutti; l'oggetto dell'avviso: ..vende pomodori (privato) .. viene il veterinario (pubblico)... Il committente indicava l'oggetto e pagava: pagatimi chi vvi jttai u bbandu: pagatemi perchè ho dato gli avvisi che vi interessano.

Queste grida: jetta u bbandu, erano frequenti. Non jjttari u bbandu: non farti sentire da tutti. Esti nutili chi jjetti u bbandu: è proprio inutile che gridi tanto... proprio nessuno ti ascolta.

Bbandu: annuncio ufficiale da esporre prima del matrimonio: si diceva nci jttaru i bbandi, doveva restar visibile al pubblico per tre giornate festive consecutive, sia in Chiesa che al Municipio.

Come tale riportato sul DIZIONARIO .

Ora, però, piace aggiungere qualcosa per render più chiare le personalità di coloro che hanno esercitato, ultimamente, la funzione.

Paulu l'africanu: reduce della campagna di Libia del 1911, da cui il soprannome, forse anche decorato per atti di valore, ebbe, da subito l'incarico non saprei se dal Comune o dalla Prefettura, con una modestissima retribuzione, che tenne, esercitandolo fin quasi alla morte; ci teneva a dichiararsi " bbandiaturi cuvernativu".

Non molto alto (eufemisticamente). Era molto piccolo! Aveva una voce da tenore leggero con uno squillante poderoso do di petto.

Di carattere affabile, un po’ sornione e fortemente ironico. Si metteva a capo di molti più giovani per organizzare farsette e comiche varie, soprattutto nei giorni carnevale quando, nella notte di martedì era a capo del funerale ed era la voce recitante del coro e il solista, nel narrar le gesta del carnevale prossimo a morire e, immediatamente, appena morto : ore 24 del martedì grasso. Ogni anno una storia diversa: un oggetto ed un argomento sul quale costruire satiriche storielle.

Viveva del prodotto della terra che coltivava direttamente, ma arrotondava, d'estate, facendo u ripartituri e u mbiviraturi. Riscuoteva rispetto e stima sia nella nostra borgata (Casaluccio) che nel resto del paese. Era un bravo nnestaturi i vigna: sapeva, cioè, ben fare gli innesti della vigna.

Aveva un figlio che viveva a S. Elena (borgata alle pendici delle colline prospicienti Montebello), ma con lui e la moglie, un pochino più alta di lui, saggia, attenta…forse anche altera, nella sua dignità, la quale sapeva anche cardare e filare la lana. Con loro viveva una nipote, poco più che decenne, all'epoca.

Ormai vecchio, passava molto tempo seduto al sole o all'ombra du chiuppu du Casalucciu; aveva la battuta pronta, ironica, talvolta sarcastica, su ogni passante, riuscendo a produrre ampie e comiche risate comuni.

Credo sia andato qualche anno prima che venisse sradicato il pioppo: luogo d'incontro e salotto buono del rione.

Portulisi: di cognome Portolese , probabile errata trascrizione di portoghese.

Era pruiettu, cioè figlio adottivo. Sposato e con un buon numero di figli, credo, ancora, quasi tutti viventi. Longilineo, balbuziente; credo abbia appreso a cantare proprio per esercitazioni puerili. Aveva una voce da tenore-baritono e si esercitava frequentemente cantando.

A lui, all'epoca, era stata assegnata la parte alta (e grossa) del Paese: era costretto, quindi, a ripetere il bando più volte da più punti strategici .

Buon uomo e grande lavoratore della terra: prestatore d'opera, si diceva.

Le fisionomie di questi signori della voce alta, signori dell'avviso, comportavano anche la necessità del codazzo, perché, naturalmente erano seguiti , con corali esercizi a voce bassa, da un nugolo di monelli: ragazzini di sempre! i quali ragazzini memorizzavano facilmente e ripetevano per giorni e giorni l'annuncio….eccome si diffondeva la notizia!

Nella definizione s'è accennato ad un pubblico e un privato proprio perché dal committente veniva la ricompensa, che, era diversa a seconda dell'importanza e della " socialità" dell'avviso.

U mulinaru

Riportando dal " DIZIONARIO "

Mulinu

Costruire il molino? Dalla primordiale esigenza: forza motrice! La forza motrice era fornita dall'acqua che veniva usata più volte: per i vari congegni, per lavare e pulire ed infine per irrigare, nei periodi estivi.

Dunque i vari congegni che avevamo necessità di questa forza dovevano esser costruiti a monte allo scopo di consentire la successiva utilizzazione.

Il mastro (capo maestro), quindi, per prima cosa doveva scegliere il luogo di costruzione secondo questi fondamentali principi: il fabbricato doveva sorgere accanto ad una zona, naturalmente scoscesa e con adeguata via d'uscita e di successivo convogliamento dell'acqua.

U mulinu (fabbricato che assumeva il significato generalizzato di luogo dove è possibile macinare cereali e leguminose), costruito su tre piani, in muratura e soltanto con qualche apertura, oltre a quella d'accesso, era costituito, dall'alto:

- turri: detta anche carcara, per la forma analoga, una torretta a forma quadrata o circolare con una vasca di raccoglimento nella quale sfociava la condotta generale dell'acqua, di grande capacità: almeno sei ore. Quindi a filicìa, la bocca dalla quale fuoriesce l'acqua sbattendo con violenza sulle pale della ruota. Questi due termini carcara e filicìa sono senza altro d'origine greca ta karkara, le prigioni e phylachìa, posto di guardia.

Da un congegno, dall'interno, era possibile modificare la gettata e la pressione dell'acqua, modificando il foro d'imbocco sul canale d'uscita. Anche questo congegno si indicava come filicìa .

- frabbicatu: il vero e proprio fabbricato, nel quale era sistemato il molino, il lettino per il mugnaio, un focolare....e pochissime suppellettili e utensili ...del mestiere.

- galliria: una specie di tunnel, nel sottopiano, nel quale la pressione del getto d'acqua faceva girare un asse.

Vari congegni, terminanti tutti all'interno, raggruppati, per agevolare i comandi: assi, funicelle , leve, cunei.....

Nella galliria una turbina ad asse verticale (saitta - assu): nella circonferenza esterna sistemate tante manette ( manitti : forme di mano a dita chiuse, incuneati per la parte del polso nella ruota ) a seconda della gandezza - che dipende sempre dalla forza motrice - orientabili.

Il getto d'acqua urta violentemente le manette e fa girar l'asse centrale. Per l'orientamento ed eventuale sostituzione delle manette era necessario fermare il getto ed entrare nel tunnel, mentre le altre operazioni potevano essere eseguite dal posto di manovra interno. L'asse: grosso fusto di legno rinforzato al centro, longitudinalmente, con un palo di ferro (di almeno 4/cm di diametro) terminante, al suolo sui dei cuscinetti a sfera ed in alto sulla filidona. Il tubo del getto, detto filicja ( pron. j, i lunga) arriva quasi a toccar le manette....per non perder forza. L'acqua, con un caratteristico frusciare, fuoriesce immettendosi nei canali di successiva utilizzazione.

A filidona: una piastra di ferro (di circa due cm. di spessore), almeno 15x30 cm. con un foro rettangolare al centro nel quale entra il terminale dell'asse di ferro. Sulla filidona poggia a suprana.

A suprana: pietra circolare di solito almeno mt.1,20 di diametro per circa 15 cm. di spessore. Una pietra particolare: petra i mulinu, appunto: non molto farinosa e non molto dura.

A suttana: pietra della stessa qualità della precedente, a forma di vasca circolare di un diametro leggermente superiore a quello della suprana, tanto da consentire l'agevole rotazione in velocità e da permettere il recupero della farina....per mezzo di piccole scope, e, fornita di un foro laterale che consente la caduta della farina verso l'esterno....il sacco che l'attende, ben legato, su una sorta di canale rettangolare, in legno che passa al di sotto del foro della suttana inglobandolo, per evitare il disperdersi della preziosa farina, e un foro centrale che consente l'innesto dall'asse sulla filidona.

A cascitta o tamburu: una sorta di tamburo con una sola base (u cumbogghiu: coperchio), in legno, che copre totalmente le due pietre: ha un foro al centro del coperchio in corrispondenza dell'analogo della suprana: in questo foro entra a ciaramita (canale in legno che porta, in questo caso, il materiale da molire) e u battenti (grossa mazza in legno che poggia sulla suprana della quale subisce le vibrazioni trasmettendole a ciaramita che è collegata alla base della trimudja (pron. j , i lunga) ed è inclinata verso il centro.

A trimudja: contenitore a forma di piramide, a base quadrata, vertice in basso, con opportuna apertura. Era appoggiata su quattro alti stanti laterali, indipendenti...tali da non subire in maniera diretta le vibrazioni prodotte dai giri della suprana. Vi si versava il materiale da molire:....anche per poterlo suddividere, - per mezzo di un asse di legno trasversale che può chiudere il passaggio - talvolta, in piccole o piccolissime quantità....a seconda delle esigenze del cliente. Cordicelle, assi, cunei, tiranti, variamente congegnati permettevano di regolare l'afflusso (u cocciu: la quantità e la rapidità di discesa dei cereali o leguminose) al foro centrale della suprana.

A seconda del materiale da molire e della qualità di farina da ottenere si doveva predisporre e di continuo regolare:

a) u pedi: con un robusto asse infisso nel terreno e corrispondente all'assu, si operava in modo da tenere più o meno sollevata a suprana d'a suttana, troppo adiacente produce terriccio (picca pedi, :poco alzata), troppo sollevata (assa'i pedi, molta alzata) farina molto grossolana;

b) u cocciu: la quantità di materiale da inviare alle pietre, assa' cocciu, si ffuca: molto materiale....soffoca e rischia anche di fermare i movimenti circolari, picca cocciu: poco materiale...si rischia di produrre terriccio...

c) a cascata: (la forza dell'acqua che imprime movimenti più veloci e/ o di maggior forza.

Leve ed accorgimenti permettevano anche si separare, senza arrestare i movimenti, le varie quantità del molito.

U mulinaru: (il mugnaio) per tradizione appartenevano alla stessa famiglia, tramandandosi i segreti dell'arte di padre in figlio - incipriato, spesso un pò gobbo, pipa in bocca - cannuccia dritta e corta, pipa di terra cotta - quasi sempre spenta.... dorme poco, è sempre attento, vigila costantemente ogni movimento delle complicate apparecchiature, seleziona le qualità da molire facendo nota anche per i clienti....esigenti. Si muove continuamente anche verso l'esterno: per veder chi arriva e chi parte, per sorvegliar la sua....piccola fabbrica....ma trova anche il tempo per qualche avventura. Va precisato che al mulinu andavano spesso donne con il carico in testa (fino a 50/60 Kg.), per incarico o direttamente interessate....e, non di rado si fermavano per attendere a vicenda (il proprio turno)... e, come passavano il tempo?, con il mugnaio...? di notte, d'inverno?....

Mulinara: raramente era una donna: troppo faticoso!

Le famiglie assumevano il soprannome portandolo con orgoglio: a mulinara (moglie o figlia) i figghi du mulinaru (i figli e/o le figlie) Qualche famiglia benestante inviava cu vetturinu, ragazzotto di servizio anche provvisorio che badava alla cavalcatura : mulo, asino fino a circa un quintale ....ma anche na padda i rrussu: un fiasco di vino.

Ma le pietre: suttana e suprana dovevano esser curate, di tanto in tanto, per evitar che producessero terriccio o non riuscissero a molire sufficientemente fino, dovevano essere martellinate. Vi provvedeva lo stesso mugnaio con un attrezzo particolare, specie di ascia lineare a due lame perpendicolari rispetto al manico: a martillina. Veniva sollevata e poggiata a terra a suprana, per mezzo di una corda e carrucola legata su stanti a parte o al soffitto; la suttana poteva esser martellinata sul posto. Di solito, però, subito dopo quest'operazione non veniva molito cereale per alimentazione umana....c'era sempre del terriccio.

Attenzione e dedizione del mugnaio: dopo la molitura, seppur grossolana, di leguminose e/o di cereali per foraggio utilizzava una certa quantità di cereali, dopo aver sistemato pedi e cocciu, per ottenere una giusta finezza della farina, alcuni kg. di cereali....ma faceva destinare la farina a foraggio a causa delle piccole impurità che poteva contenere....ma talvolta era anche necessario alzar la suprana e pulir tutto con scopa e spazzola.

Le informazioni correvano: si sapeva sempre in paese....che il tal mulinaru aveva provveduto alla martellinatura ...di recente.

Naturalmente la molitura era differenziata a seconda del materiale: grano, molto fine; segale ed orzo: piuttosto grossolana; mais: a granellini; leguminose per foraggio...quasi sminuzzati.....

Piccolo glossario:

A cassja: (pron j, i lunga) quel che si disperde, nonostante tutti gli accorgimenti; lo sfrido, si direbbe, oggi. Era stabilita da usanze locali in circa 5%, ma di fatto, spesso era inferiore, per cui il mugnaio accumulava anche delle proprie riserve, dette cassja. Ma erano varie qualità mescolate per cui con il tempo il termine ha assunto il significato di resto, residuo mescolato e veniva attribuito a persona dal carattere....un pò indecifrabile.

U jussu: (latino, per tutti!), la tassa sul macinato, spesso pagata in natura: 5 kg. di farina per ogni Q.le di macinato. Menzu mundeddu, u mundeddu, u menzu: recipienti di legno per le misure (ved. voci)

Partita: (picciula, rossa o randi, partitedda....) quantità da molire.

Saccu i mulinu : sacco. Sacco di tela di cotone atto a contenere e mantenere pulito ...il macinato.

Sajtta: (pron. j, i lunga) la turbina e per estensione il locale sotterraneo.

I cereali: jurmanu: segale - miscitatu: grano, orzo, segale mescolati - orgiu: orzo - paniculu: mais, grano turco - ranu: grano ...(vedere voce di ciascun termine).

Le leguminose: favuzza: piccole fave (specie particolare di fave) - favi: fave - linticchia: lenticchie - luppinu: lupini (vedere voce di ciascun termine).

Sassula: utensile in legno per maneggiare materiali di piccola dimensione e/o farinosi.

Non che ve ne fossero tanti, di mugnai, ma quelli che c'erano riuscivano a tenere "segreti", i segreti del mestiere. Mantenevano il soprannome portandolo con orgoglio.

La proprietà del fabbricato era di famiglie abbienti o ricche. La gestione, però, veniva affidata, con la totale fiducia, al mulinaru che, riusciva a procurarsi, abbastanza bene, da vivere e da fornire alla proprietà sufficienti proventi.

Quando, poi, la forza motrice e le strutture si sono modificate (energia elettrica, molino a cilindri etc.) s'è modificata anche la personalità del mugnaio, diventando veramente un dipendente lavoratore a stipendio, che, comunque, restava fedele al datore di lavoro ed onesto nella sua attività. I turni di lavoro si sono unificati e , mentre di notte le macchine tacevano, l'industria poteva trasferirsi anche al centro del paese.

Ma l'alone romantico del mugnaio incipriato, sempre assonnato, ma sempre attento….e, probabilmente anche padre di diverse creature nate, poi, su talamo ufficiale, con legittimo padre….. spariva definitivamente.

I triatisti

I triatisti : gente di teatro, attori, scenografi, scrittori, musici.

Il termine, però, veniva usato quasi sempre nel significato spregiativo ed attribuito a gente che, temporaneamente, o, in via continuativa, recitava, si atteggiava, prendeva posizione.

Non ricordo azioni sceniche teatrali precedenti alla fine della guerra: c'era la guerra! Già abbastanza da dire, da raccontare: lettere che arrivavano dal fronte aperte e richiuse con una striscia " verificato per censura".

Il rientro per festività dei primi emigrati (soprattutto in Francia, ma anche in Svizzera e nel Benelux ed in Inghilterra - quelli che colà erano stati prigionieri) ben protetti da giacconi di cuoio e da indumenti pesanti di buona fattura e tessuto adeguato al clima del luogo di lavoro, ma indossati con gagliardia e ostentazione anche senza vere necessità, ha provocato la fertile fantasia (ed anche buona penna) del Medico condotto del Paese, che, ha scritto un testo, detto appunto "Giacchi i pelli", ironizzando sugli atteggiamenti dei giovani, ma facendo il punto sul fluire di denaro di provenienza estera.

La "piece" è stata scritta in brevissimo tempo, alcuni direbbero in una sola notte e si componeva di varie parti comiche cantate o recitate ed altre nelle quali, con sottile e delicata ironia, si mettevano in luce vizi e difetti della società del tempo.

E' stata rappresentata tra Natale e l'Epifania alcune volte riscuotendo notevole successo. Il teatro: la scuola elementare di Urgori, banchi raggruppati in un angolo, ognuno ha portato la sedia da casa. La scena è stata realizzata utilizzando la pedana della cattedra con alcuni teli (lenzuola) appesi alle travi del tetto.

I testi, manoscritti, finiti chissà dove o, conservati gelosamente da qualche "attore" dell'epoca.

Secondo alcune testimonianze una parte di quel manoscritto potrebbe…potrebbe… essere stato conservato da A. Nicolò, allora, giovane attore: ha la ma età e vive in Svizzera.

Poi, credo nell'inverno del 1948, il drammone Omertà messo in scena e rappresentato da un gruppo di giovani studenti e da alcune persone, particolarmente versatili in specifici ruoli: picciotti, capi bastone, osti, un monaco cappuccino.

Una sola rappresentazione con discreto successo; teatro il frantoio dei fratelli Tripodi, sedie da casa.

Nel 1951 (o 1952) alcuni seminaristi che avevano lasciato definitivamente la tonaca (a rrubbetta nira) hanno tentato con un testo non adatto agli spettatori del luogo: La pista di Dio che non ha avuto grande successo.

Il teatro: questa volta c'era già l'Asilo (trattandosi di un pezzo con sfondo religioso e propagandistico e di ex seminaristi) con un grande salone al piano terra, ma le sedie, come al solito, ognuno da casa.

L'estate del ' 53 è stata molto ricca di opere teatrali.

Una famiglia di teatranti siciliani si era trasferita, con le poche robe, forse si dovrebbe dire che era una tappa della loro tournée, già all'inizio della stagione nel nostro Paese.

Una vecchia nonna adatta a tanti ruoli comici anche maschili, due coppie ed una giovane procace prima donna.

Il "Capo comico" suonava anche la chitarra e tutti cantavano insieme o singolarmente. Comparse di volta in volta con risorse locali.

Rappresentazioni: ogni Domenica sera. Su testi, cannovaccio del loro repertorio, adeguati facilmente a situazioni locali.

Vari i titoli: di carattere drammatico (" La fata Alcina", "Santa Genoeffa") religioso, comico, di attualità.

Il teatro: il frantoio Spano' gratuitamente concesso, ma, le sedie come al solito, da casa; il palcoscenico questa volta era stato costruito, con materiale in prestito e grandi tele dipinte come scenario, di loro proprietà.

La presenza della giovane attrice ha prodotto una vera spaccatura tra le giovani del posto.

Di fatti un gran nugolo di giovani e giovinastri le ronzavano intorno; qualcuno pare con buone intenzioni, ma la maggior parte solo per ignorante e pretestuoso "gallismo".

Le ragazze da marito del paese - soprattutto quelle più disponibili ed attente - si sono sentite messe da parte…gelosie, invidie…; mentre una buona parte, gli adulti soprattutto, pur non masticando molto di teatro, accettava la presenza e contribuiva - ciascuno con generosità - al mantenimento della famigliola.

Qualcuno ha anche tentato di offrire lavoro (lavoro dei campi) agli uomini, ma loro non sapevano e, credo, non volevano faticare. A loro bastava molto poco per vivere: soprattutto la loro fede artistica ed un tozzo di pane…. e, un bicchiere di vino.

Provavano per l'intera settimana e, poi, la domenica nel primo pomeriggio, le prove generali e, la sera, la recita.

C'è stato più di uno screzio sia per le due donne che per la giovane . Probabilmente anche qualche "duello" tra i galletti del paese, in linea con i tempi, ma tutto, alla fine, è sempre tornato alla normalità.

Verso la fine dell'estate hanno raccolto le loro robe e sono partiti una mattina di buon ora con il primo autobus, insalutati ospiti. Credo abbiano svernato in un paese vicino, ma poi, hanno ripreso il loro peregrinare, la loro " tournée "

C'è stato un certo "parlare" a proposito della partenza repentina e non annunciata.

Una certa voce vorrebbe affermare che uno o tutt'e due gli uomini non fossero realmente mariti e che tutta la compagnia era stata organizzata e pagata dalla " mafia " siciliana per tenerli lontani, per qualche tempo. Altra voce vorrebbe che una o tutte e due le donne avessero trovato comodi amici in paese…fino a quando, però, il tutto è rimasto segreto; o che gli uomini, uno o tutt'e due, abbiano tentato degli approcci con donne del luogo, "mancando di rispetto".

Altra ancora vorrebbe che la giovane, speranzosa di trovare una buona sistemazione e delusa per gli approcci brutali dei giovanotti, abbia imposto di partire repentinamente.

E, l'ultima (voce), che…le Autorità abbiano, alla fine, ricevuto informazioni che hanno determinato l'ordine di andar via immediatamente.

Da allora: soltanto qualche recita scolastica e qualcosa organizzata dalle buone Suore per particolari ricorrenze.

Di teatro ?

Non si mangia e non si vive !

U rripartituri - U mbiviraturi

U rripartituri

Costituito qualche secolo fa,(*) esiste tutt'ora (in qualche posto ci sarà anche l'atto notarile costitutivo) un Consorzio irriguo con lo scopo di utilizzare le acque di una sorgiva (a lamia) avviate attraverso la vallata di Catarinedda ed incanalate fino a raggiungere gli orti del Paese : diritto dal 15 maggio al 30 settembre poi, scorrevano libere sul greto del torrente che, più a valle, diventa S.Elia.

La ripartizione per l'uso era stata fatta saggiamente per giorni, ore e minuti, cominciando - il lunedì alle ore 0,00 dalla parte alta e finendo il sabato alle ore 24 a Fossatello, parte bassa.

Un servizio che, in qualche modo, si tramandava di padre in figlio, per provata onestà, era quello del ripartitore: rripartituri, che conosceva, “a menti”, come potrebbe essere diversamente, se la maggioranza era analfabeta? ma possedeva l'orologio da tasca e sapeva leggerlo! dettagliatamente tutti i giardini e tutte le quantità, in ore e minuti , dell'uso delle acque.

Il personale che assicurava questo servizio: almeno sei uomini - tanti ne ricordo! - veniva retribuito a fine annata in ragione del tempo d'uso delle acque . Per quelle famiglie era…qualcosa, in qualche modo aiutava a vivere . Alcuni preferivano scambio di prestazioni da valutare a seconda dei casi: la paga del ripartitore era a minuto e corrispondeva, globalmente, a quella di un capomastro: questi i parametri!

Si alternavano, dodici ore ciascuno, notte e giorno. Normalmente ognuno conosceva la sua zona "d'operazione", visto che doveva essere a conoscenza di tutti i dettagli di coltivazione di ciascun giardino: planimetria, tipo di coltivazione, maturità del prodotto , ingresso ed uscita dei canali, etc.

Avevano, ognuno, la propria "lampa a petrolio"; il petrolio costava…, soltanto qualcuno "osava", per risparmiar qualcosa utilizzare la lanterna a ogghiu ; era frequente, quindi, veder una persona, a pieno mezzodì che rientra dal giardino con una lampa in mano, spenta, naturalmente: aveva fatto il suo turno, 0,00 - 12,00!

Questi signori, oltre a conoscere quanto sopra detto dovevano anche saper calcolare il tempo di "percorrenza" (**) delle acque da un appezzamento all'altro!

Caratteristico il loro avviso: mastru…., sunnu l'undici e cinquantaquattru…:è vostra ! Ma non entravano nel coltivato, percorrevano il viottolo, loro riservato, sul perimetro esterno; e, lo facevano con molta diligenza!

Tutta l'annata cominciava il giorno di Pasqua quando si proponevano (domanda di lavoro!) ai proprietari dei giardini e venivano accettati con l'indicazione del "tanto al minuto!"; c'erano delle partite anche piccolissime: di dieci o addirittura, cinque minuti!

Automaticamente cominciavano alle ore 0,00 del 15 maggio applicandosi con solerzia e attenzione al proprio lavoro, riscuotendo giusta mercede, gratitudine ed ammirazione!

E, poi, la prima domenica di ottobre un loro incaricato faceva il "giro" per riscuotere: ma questi aveva il quadernetto con già segnati sopra nominativi e Lire; per ogni riscossione cassava (segnava soltanto) il nominativo e metteva i soldi in tasca o ndo busciulu: un sacchetto di tela robusta fermato con una cordicella scorrevole. Robusta! Perché allora si trattava di monete metalliche pesanti ed ingombranti.

U mbiviraturi

Questa figura faceva un altro tipo di servizio: di dettaglio, entrando in ciascun giardino che gli veniva affidato e "conducendo" le acque solco per solco per tutto il tempo.

Avveniva che molte persone anziane affidavano questo compito per le sole ore notturne e, spesso, non in soluzione di continuità; per cui il tempo - lavoro era frastagliato, sminuzzato,…ma alla fine costituiva una qualche fonte di reddito.

L'incarico era, quindi, personale ed il rapporto si stabiliva tra ciascun proprietario che desiderava il servizio e chi lo prestava.

La maggior parte, però, nelle ore diurne, preferiva occuparsene personalmente, vuoi per risparmiare, vuoi anche perché, non di rado, il prestatore d'opera danneggiava, in qualche modo, il raccolto ..o… si rendeva conto della qualità e quantità…e, non si sa mai! poteva anche riferire, in buona fede ai malintenzionati!

Di frequente giovanotti e giovinastri corteggiavano u mbiviraturi per strappargli qualche confidenza: dove sono le buone lattughe, i migliori finocchi, i mandarini maturi, il migliore zibibbo, etc. tanto per poter organizzare scorrerie notturne: giammai per uso commercio !

"La refurtiva" se si può dir così, veniva consumata in un certo posto, ad una certa ora, spesso invitando al banchetto anche il beffato proprietario! Ma senz'altro chi, inconsciamente, si era prestato a far da "palo".

Ora, non credo esistano più queste figure: ognuno s'arrangia come può. La notte si dorme e le acque, se non altrimenti utilizzate, vanno a riempire le vasche - serbatoio dell'acquedotto comunale…, a gratis, s'intende!

(*) Ricordo d'aver sentito dire, da mio nonno, negli anni '40 che il consorzio esisteva già ai tempi di suo nonno : albori del 1800!

(**) Importante: naturalmente c'erano dei buoni margini di intervallo per il transito delle acque da un podere all'altro, talvolta traducibili in vari minuti, dei quali, però, nessuno reclamava la proprietà; il ripartitore, quindi, ne disponeva , con cronometrica precisione, in un determinato giorno della settimana, affidandole a coloro che coltivavano le naside (territorio del greto del torrente, quindi demaniale, utilizzato da alcune famiglie meno abbienti, per colture stagionali) .Per questi " piccoli favori " il ripartitore non percepiva alcunché; chi utilizzava le acque, però, in qualche modo ricambiava con prestazioni lavorative.

Ferru vecchiu - Ramu vecchiu…… mu ccattu !

Talvolta parlando con amici, più o meno coetanei, anche se hanno vissuto la fanciullezza e la prima giovinezza, in contesti geografici diversi, è inevitabile cercar tra i ricordi, i quali, al vertice della piramide, si identificano, momenti gioiosi o talvolta tristi.

Ed è così che, in questi giorni, abbiamo "rivangato" nel nostro passato - almeno dal '36 al '40 - seppure in contesti geografici differenti: l'uno di area jonica tipicamente gracanico e l'altro, sempre jonico, ma piuttosto collinare e più vicino a Leucopetras (Capo d'Armi: estremità sud dello Stivale!) quasi spolverando, e, lucidando con amorevole attenzione, delle vecchie istantanee.

Ed è ricomparso :

- L'oro alla Patria;

E' storia vissuta da gente tutt ' ora vivente.

Anni prima della guerra 1940/45: dalle Prefetture erano stati inviati in tutti i Paesi, ma proprio in tutti gli angolini sperduti, dei Funzionari con lo scopo di ritirare l'oro e i gioielli - doveva figurare offerta spontanea alla Patria in difficoltà, ma giammai, spontanea fu, rilasciando ricevuta e un corrispondente monile in ferro; in temporaneo prestito, si diceva. Finite le difficoltà, la Patria, si ricorderà restituendo a ciascuno…. Le difficoltà non sono mai finite e, non solo, se ne sono aggiunte molte altre. …. Ma la Patria, proprio ora si ricorda di noi? Ci conosce soltanto perché siamo iscritti in un elenco di cittadini abbienti, ma che vuol dire abbienti?

Non che il ventennio, non ancora finito, lasciasse buoni ricordi! Anzi!

Di quell'epoca ricordiamo:

- frequentemente i Funzionari non erano…tra i più onesti, insomma. Probabilmente intascavano una buona parte di quei gioielli e rilasciavano diverse tipologie di ricevute; alcune senza timbro e su…carta straccia…

- non erano da meno molte mogli, mamme, le quali in fondo possedevano soltanto un oggetto d'oro (chi aveva avuto la fortuna) le fede, vera, virghetta,…, e non se ne privavano volentieri. La Patria! Ma cu esti a Patria? Si rricorda ora? Non avevano tutti i torti…si ricordava ora, soltanto ora e mandava a farsi…male…rappresentare , per chiedere.

- facile, quindi, trovare il modo per non farsi mai rintracciare, giorno, quando c'era in giro, il tizio, sempre in campagna;

- o, meglio ancora, e, più in stile contemporaneo (dell'epoca): si cercavano, nell'ambito della famiglia, ancestrale e collaterale, le fedi d'oro americano: 14 karati, anziché 18! Di queste ne circolavano molte, tanto che, si diceva, qualcuno possedesse una certa collezione e le prestava per la cerimonia nuziale, soltanto per la cerimonia, però.

I vari flussi migratori e i ritorni di gente ricca ai suoi monti avevano consentito la temporanea costituzione di piccole fortune. Naturalmente si acquistava la fede d'oro americano, nascondendo la propria con gelosa attenzione: era un certo sacrificio economico, non di rado troppo retribuito, ma, tant'è,…la Patria ci prende in giro con i suoi onesti funzionari…e, insomma…facciamo altrettanto. Si ragionava così!

Vero ancora che, chi possedeva molti gioielli, …. Insomma, trovava il modo per convincere il Funzionario, tutto in silenzio ed in buon'armonia.

La fine della guerra ci visto giovani e capaci di intendere; non abbiamo capito dove s'era impuntato il sistema: oro alle mamme non ne è stato restituito! Non c'era, d'altra parte, modo per restituirlo, dopo una tale fine !

Ferru vecchiu….rramu vecchiu…, mu ccattu !

Riteniamo si possa essere giunti nelle vicinanze del '40 !

Rigattieri, commerciantucoli,giravano per paesi e campagne, spesso con cavalcatura bardata e capace di trasportare notevoli pesi, gridando, pesso in modo sgraziato,la loro attività. Compravano ferro vecchio, usato, … a cambio di merce, però! Bottoni, bottoncini, spille da balia, spagnolette di filo di refe, nastrini ornamentali. Non c'era modo di discutere sul prezzo! Loro stabilivano il quanto e valutavano anche eventualità di ripassate per successivi acquisti. In pratica defraudavano, la povera gente, delle ultime piccole ed importanti suppellettili: la Patria!, la Patria! .. deve fare i cannoni… intanto la maggior parte pensava al proprio tornaconto…. Così s'è persa la guerra!

A quell'epoca una mamma di famiglia, una donnetta di paese… usava portare u tuppu (lo chignon, si direbbe oggi) che la distingueva e le conferiva onore e dignità. Risulta che alcune, o molte, per poter acquistare l'indispensabile, proprio l'indispensabile (sale da cucina, aghi e filo per cucire) non hanno esitato a farsi tagliare i capelli e darli in cambio di merce, coprendosi il capo con un fazzolettone scuro, per la vergogna. Ma lo stato di bisogno portava anche a queste estreme soluzioni. I capelli, raccolti in trecce annodate e, spesso, con un bel nastrino ornamentale, finivano, con estrema disinvoltura, nel fondo del sacco del rigattiere (si diceva frindinaru, ccatta e vindi etc., ed erano definizioni un po’…. un po’ …offensive . Probabilmente venivano, poi, utilizzati per la preparazione di parrucche.

Personalmente ho assistito ad una scena di questo genere.

Ricordo d'aver visto la donna cominciare a piangere già prima del taglio e continuare le lamentazioni, dopo; in qualche modo confortandosi a vicenda con altre persone che subivano la stessa sorte: il bisogno!?

Ma c'erano anche delle buone mamme che sapevano fare economia: raccogliendo i pochi capelli che di volta in volta, ad ogni pettinatura, cadevano, in piccole matassine che chiamavano magghia, come fosse soltanto una magglia (sarebbe giusto dire ciocca); li conservavano in dei sacchettini sterili in attesa del compratore: sempre con lo stesso sistema di cambio merce.

A Cardatura

Un ambiente di circa 5 x 5 mt, al piano terra, rialzato di un gradino e mezzo, pavimento in terra battuta, fresco d'estate e confortevole d'inverno.

Porta d'ingresso ad anta intera con finestrino (ccettu); sulla parete posteriore, verso gli orti, altra porta simile con finestra più grande.

In un angolo, opposto all'ingresso, il focolaio u fucularu: un triangolo isoscele rialzato di circa 20 cm. con pietrame, con accanto la riserva di legna per usi domestici, riscaldamento ed illuminazione.

Una scaletta in legno, fissa, portava al piano superiore, mezzanino, illuminato solo dalla parte dei giardini. Nel sottoscala in tavole un specie di magazzino viveri.

Accanto, ma discosto, al focolare, fissato su robusti travi infissi al muro, e su un asse di tavola molto spesso: il cardo.

U cardu: la parte fissa stabile, come già detto, della grandezza approssimativa di 30 x 80 cm.: un tavolone irto di chiodini con la punta rivolta verso l'alto leggermente inclinata verso la sedia, una panchetta di legno della maestra; la parte mobile: una tavola più leggera irta di chiodini anch'essi con la punta verso l'esterno ed inclinati nello stesso senso degli altri; le impugnature laterali con la forma (vagamente delle mani, diventate lucidissime per l'uso.

Nelle due pareti all'ombra alcune travi infisse nel muro ad altezza di circa un mt. con la sporgenza di un certo numero di teste di chiodo, alle quali risultavano sempre appesi dei sacchi contenenti la lana da cardare e quella già cardata. I sacchi, spesso di grezza juta di colore uniforme.

Non un nome ché tanto, la maestra non sapeva leggere); non un segno particolare da lei messo se non quello che i committenti applicavano: un nastrino, un filo di spago, una cordicella, qualche abbozzo di ricamo. A lei era sufficiente far mente locale per individuare la partita e, non sbagliava!

I sacchi attendevano esattamente ciascuno il suo turno di lavorazione; ai committenti veniva sempre indicato ( si Ddiu voli) il giorno di consegna del lavoro: in mattinata, nel pomeriggio, in serata.

A Cardatura: una donnetta, come la ricordo, sempre vestita di nero e con il fazzolettone in testa legato sotto il collo. Non aveva marito, non so se era vedova o mai sposata. Non aveva figli anche se qualcuno pare sia stato cresciuto da lei, cioè lo avrà avuto in affidamento, in adozione o soltanto per aiutare qualche parente.

Pagamento in generi di sussistenza: alimentari, qualche pezza di stoffa per una veste, di quelle larghe e lunghe alla caviglia, qualche indumento già usato ma in buone condizioni, legna da ardere, olio, e, qualche committente più danarosa, raramente, del denaro. Qualcuno le pagava le medicine, il Medico era gratis. Ma di roba di casa dai salumi ai formaggi, dai legumi agli ortaggi, dal pane quotidiano, la sua casa era ricca e, lei spesso, è a me' sidura è il sudore delle mie mani.

La cardatura (il lavoro): ciocche di lana, già pulita, a poco a poco venivano sistemate sulla parte fissa del cardo e dipanate, fino a farle diventare delicate e quasi trasparenti, molto simile allo zucchero filato degli odierni ragazzini, facendo strisciare, una volta, due, di più, la parte mobile, impugnata con entrambe le mani, chiodini contro chiodini, fino a quando se ne ricavava una certa quantità di bambagia. A mani nude senza, cioè, guanti di protezione, veniva liberata e messa nel sacco in attesa.

Il volume dei sacchi in partenza era almeno il quadruplo di quelli in arrivo.

La lana di pecora è, naturalmente, di color bianco, biancastro, nero, nerastro, tendente al marrone molto scuro e pertanto, così selezionata, dai datori di lavoro, veniva lavorata. Eventuali abbinamenti di colori venivano fatti alla filatura, che non è di questo laboratorio.

A zza Maria a Cardatura, aveva la buona abitudine di recitare preghiere e razzioni (*) (orazioni) durante il lavoro, e, lo faceva a voce alta per tenersi compagnia e per dire al mondo esterno che viveva, viveva e lavorava; non cantava mai!

Piccoletta, ingobbita dalle fatiche e dagli anni; il volto incorniciato dal fazzolettone, dal quale fuoriuscivano le ciocche candide, esprimeva serenità, attenzione, dolcezza, disponibilità per gli altri. Non viveva per il denaro, non avrebbe saputo cosa fare: le bastavano le cose con le quali la gente ripagava il lavoro: mal pagato, senz'altro! Ma lei non aveva l'abitudine né di chiedere, né di reclamare.

La casa-laboratorio era nella parte bassa del mio rione; una zona piuttosto umida e fredda, quindi la necessità , meno che in estate, di tenere il fuocherello accesso tutto il giorno.

In quella stanza, al calduccio, al riparo da pericoli, ospitava spesso bimbetti le cui mamme lavoravano tutto il santo giorno in campagna e, queste mamme facevano dei regalucci di tanto in tanto.

Sia pur per breve tempo e raramente sono stato suo ospite.

Una specie di asilo nido per bambini già autonomi: per i servizi igienici c'era la strada libera, polverosa, assorbente; per lavarsi le mani (i piedi, e perché no!) l'acqua corrente nella cunetta (u cunduttu).

Qualche mamma lasciando qualcosina di colazione per il, o i propri figlioli, lasciava anche a lei un po’ di pane e companatico.

Non esistevano urgenze o meccanismi di precedenza: ognuno, rigorosamente, rispettava il suo turno.

Lavorava solo con la luce del giorno e, di solito, quasi ogni sera, allo squillar della campana si recava in Chiesa per la Binidizzioni, portandosi per mano, alcuni dei monelli a lei temporaneamente affidati.

La Domenica riposo: presa in consegna dei nuovi lavori e riconsegna di quelli già finiti.

(*) Recitava in dialetto un Rosario (peccato, non aver potuto trascriverlo! ma la giovanissima età non induceva e non indulgeva su queste attività!) ) a razzioni a Santa Rosa, a razzioni a San Micheli , u cunfiddiu ( l'atto di penitenza ) l'attu di cuntrizzioni (atto di dolore), a Sarbi Rriggina (Salve Regina) ed altro.

Mestiere scomparso, probabilmente con la sua morte.

Sanguetti

Comunemente mignatta: sanguisuga, vermiciattolo degli anellidi (il nome di etimo latino da sanguis sugere, succhiare) che nella forma di hirudo medicinalis veniva allevato ed usato per fare salassi.

E' opportuno un quadro sintetico: la Medicina, scienza medica, fino a non molti anni fa si serviva di rimedi che facevano parte della cosiddetta medicina della nonna e, tra questi, il salasso, la pratica, cioè, del taglio, in una zona periferica del corpo e, possibilmente lontano da grandi vasi sanguigni, allo scopo di far uscire una certa quantità di sangue e, quindi, abbassare la pressione.

Ma, naturalmente, prima della terapia c'era stata la diagnosi: "botta i sangu", aumento estemporaneo e vertiginoso della pressione sanguigna: normalmente secondo un colpo d'occhio dell'esperto, quasi sempre confermato dal medico che accorreva.

Ma non esistevano strumenti che consentissero diagnosi repentine, mentre si ricorreva a rimedi che producessero effetti repentini. Non saprei se lo sfigmomanometro, apparecchio per misurare la pressione sanguigna, fosse già in uso, o, almeno, di proprietà di quel Medico. Tra questi, oltre alle mignatte, delle quali si continuerà a dire, c'erano i bagni di acqua calda e fredda (due recipienti uno con acqua calda e l'altro con la fredda) i bagni di crusca, i sinapati, i mattuni caddi …

Le mignatte (sanguetti ) non venivano vendute in farmacia. Il Farmacista, tutt'al più sapeva preparare un composto galenico, una pomata, un unguento….ma non sapeva allevare vermi, o, forse non se ne assumeva la responsabilità ed il compito era demandato ad altri, a terze persone che nulla avevano da fare con la Medicina o scienza.

So che il Medico ha praticato il salasso, ma non l'ho visto durante l'operazione, ho visto invece l'applicazione d'i sanguetti, delle mignatte, sanguisughe. Alle spalle, nella zona piatte delle scapole, direttamente da un bicchiere che le aveva contenute durante il trasporto, almeno due, non so per quale motivo andassero a paio, si facevano scivolare sulla pelle e una per parte si coprivano con lo stesso o altro bicchiere per costringerle ad attaccarsi e suggere sangue. Succhiavano fino a diventare gonfie enormemente, mentre il colore marrone quasi nero tendeva a schiarire, fino a quando l'esperto diceva basta e provvedeva a staccarle con forza; lasciavano sulla pelle un cerchietto di buchini rossi di sangue di quasi mezzo cm di diametro; e, venivano sepolte nella terra viva, nelle vicinanze, lasciandovi chiazze arrossate.

Oh!, ma le prescriveva il Medico! Normalmente scritto su un foglio di ricetta; non saprei se c'era obbligo legale. Credo che chi le allevava avesse se non proprio un certificato di idoneità, almeno, una riconosciuta capacità e serietà professionale.

Non so da dove e come arrivassero, ma ricordo il recipiente (almeno uno, ma ve n'erano parecchi) nel quale erano contenute e mantenute; una grande ampolla di vetro per metà acqua sporca e fanghiglia e dentro questi vermiciattoli non più grandi di un fagiolo, di colore marrone scuro quasi nero, separati per sesso e per età. Questa ampolle erano separate e protette da tendaggi scuri.

L'allevatrice preparava anche il pastone con dell'argilla grigia, terra da orto e resti di escrementi: una sorta di liquame denso e maleodorante che teneva separato in altra ampolla, ma di tanto in tanto (non saprei quante volte e se più volte al giorno) con un mestolo aggiungeva e rimescolava portando temporaneamente " alla luce" per verificare, peso, età, sesso etc..

Il frequente ricorso a questa forma terapeutica giustificava la presenza in paese di uno o più allevatori.

Personalmente ricordo quella signora tarchiata, rossa in viso, ben pasciuta, che viveva nel mio rione. L'attività doveva essere redditizia tanto da poter condurre una vita decorosa con il marito.

Mi risulta che il pagamento era alla consegna merce senza dilazioni e senza garanzie, in denaro liquido o in generi di prima necessità. Ma era un vanto del marito: alla mia tavola abbonda di tutto e non ho bisogno di lavorare, basta assistere i vermi!

Caliaturi

Caliaturi: (alcuni usavano dire caliatura) suppellettile domestica necessaria per arrostire: caliari. Castagne, caffè o surrogati.

Per le castagne era costituita, di solito, da una vecchia padella sforacchiata alla meno peggio in modo tale che, poggiata sulla fiamma viva, attraverso i fori, potesse passare calore ma anche fiamma. Mentre, quella per il caffè o, surrogati, normalmente orzo, ma anche ghiande di quercia! era:

a) una padella coperta con un sistema di mestoli girevoli: questa doveva adattarla o prepararla lo stagnino;

b) o anche di forma cilindrica dalle cui basi fuoriuscivano due perni che poggiavano su appositi sostegni di altezza differente, uno dei quali, al terminale, era piegato a manico di mola in modo da poterlo far girare e, quindi, tenere i semi da torrefare sempre sulla fiamma; da una parte una chiusura scorrevole che consentiva il riempimento e lo svuotamento. Anche questo utensile veniva prodotto dallo stagnino...e, quindi...costava.

(voce del Dizionario)

Il termine veniva usato, sia al maschile che al femminile, come soprannome, di solito attribuito a persona molto magra e, normalmente, arsa dal sole; ma accadeva anche al contrario, come per il contrappasso dantesco, che si attribuisse a chi veramente non ne voleva, si sentiva distaccato, un po' svampito, tutto al contrario di caliatu.

Castagne: le castagne sono state parte integrante e fondamentale dell'alimentazione fino almeno agli anni ' 55 - ' 60 e venivano usate in vari modi: crude, arrostite (rrustuti o caliati) infornate (nfurnati) bollite (bbugghiuti).

Si riusciva anche ad ottenere l farina di castagne, ma ora, non ricordo se ognuno provvedeva per sé oppure presso qualche mulino. Resistono, tuttora in memoria, ottime ricette per il " castagnaccio" o per l'uso della farina come additivo dolcificante.

Per la conservazione a crudo si usava sotterrarle sotto uno strato di sabbia finissima e asciutta in una stanza interrata o seminterrata, a temperatura quasi costante, oppure sepolte in strati di sottilissima paglia asciutta, prelevando ogni volta l'occorrenza, sia per bollirle che per arrostirle; quelle infornate non avevano bisogno di particolari attenzioni.

Il profumo delle caldarroste era tipico dei mesi di novembre/dicembre e gennaio che si accompagnava facilmente a quello del vino novello (dopo San Martino - 11 novembre). L'apporto alimentare era notevole, ma, purtroppo, durante la digestione producevano gas… molto gas… che doveva fuoriuscire, con delizia dell'olfatto!

La procedura per na bbona caliata i castagni: tirarle fuori dalla zona di riposo (sabbia o paglia) nelle ore mattutine lasciandole al sole per l'intera giornata, quindi con un coltellino appuntito fare un segno appena un segno sulla buccia in modo tale che il gas di prima formazione possa trovar via libera, girarle continuamente ndo caliaturi per evitare di bruciarle e… sbucciarle ancora calde ‘na parola, per chi non sa farlo, e mangiarle…. ancora calde, tutti sanno farlo!

Per quelle da infornare… alcuni giorni al sole, o all'aria perché la pelle possa perdere un po' d'acqua e quindi nel forno già preparato, mescolando di tanto in tanto c'u furcuni (soltanto un pezzo di legno di lunghezza opportuna). Dentro il forno, però, di frequente, si sentivano variamente detonazioni dovute proprio allo scoppio a causa dei gas surriscaldati: lo scoppio produceva anche violentissimi movimenti di parti del frutto o della buccia…. che,… talvolta erano anche dannosi per chi li riceveva… in un occhio, per esempio.. la parte di frutto restante dopo lo scoppio era di un croccante così gradevole che… ci si augurava che tutte scoppiassero. Dovevano esser tolte dal forno e fatte raffreddare velocemente, varie tecniche, prima che diventassero troppo indurite e scotte, pertanto, venivano adagiate, non accatastate, sul pavimento di terra battuta fresco e lasciate il tempo necessario per raffreddare completamente… quindi conservate in vari contenitori: casse, sacchi, stagghiaturi: questi si realizzavano chiudendo un angolo di una stanza a piano terra con delle assi di tavole in modo da realizzare la forma di un triangolo di grandezza adeguata alla necessità: aumentando il numero delle tavole in altezza si ottenevano spazi chiusi anche di diversi metri cubi!

Caffè: si comprava, (chi aveva la possibilità) crudo e si faceva la torrefazione familiare al momento della necessità o per una piccola scorta. Il caffè torrefatto, dopo qualche tempo, perde profumo ed aroma…. Il sottovuoto? Cos'era il sottovuoto? Roba da laboratorio di ricerca con della macchine costosissime!

Si usava la padella coperta con il sistema di mescola continua e il caffè appena torrefatto, il termine è moderno o industriale, e raffreddato veniva macinato; la polvere veniva conservata, ma solo per poco tempo, nei vasi di vetro… che, però non avevano ancora il sistema di chiusura.

Surrogati: orzo, avena, ghiande di quercia tagliuzzate e lasciate appassire al sole, fave secche tagliuzzate verdi e lasciate al sole.

Si usava per questi prodotti l'arnese cilindrico appoggiato su perni di differente altezza. Stessa procedura del caffè per il prodotto torrefatto.

Linguaggio parlato e figurato: u caliaturi indicava le zone basse della donna, normalmente calde. E, pertanto, la frase o le frasi che contenevano il termine…. Allaschiti du …Arrassiti du caliaturi …. stai lontano, stai attento. 'gnunu cu so' caliaturi: ognuno con i suoi problemi….. ognuna con le sue cose. 'mpristatimi u caliaturi: prestatemi,…. e, si,… perché non tutti potevano permettersi di averne almeno uno; mentre alcuni ne avevano più di uno.

Eeh! Chi mmi 'mpristativu u caliaturi? cosa da nulla: e che mi avete prestato…. Questa frase in bocca ad un uomo ancora giovane nei confronti di una donna… ancor giovane…e,….. comportava diverse e notevoli risposte ! come per es: u caliaturi è u meu…. e nci lu dugnu a ccu' vogghi'eu! oppure gghianda non si ndi calia c'u me'…. ( cioè surrogato!)