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IL
CONDIZIONATORE
Leggete questa, cari
Fussatoti, e meditate!
Quella
estate rimarrà impressa nella memoria di tutti per due
motivi. Il primo motivo fu un avvenimento straordinario per
la storia del piccolo paese. Un “puggnittuni”
d’amici si era messo in testa di fondare una associazione
culturale denominandola “I Fossatesi nel mondo”, con
tanto di Stemma, Statuto e registrazione all’Agenzia delle
Entrate, tanto per fare le cose in regola, e nello stesso
tempo organizzare Il I° Raduno mondiale dei Fossatesi nel
mondo”. Il tempo, tiranno, era molto breve per
organizzare tutto quello che avevano in mente, ma la
caparbia volontà, la tenacia, l’assoluta sicurezza di fare
una cosa buona e ricordevole per il paese diede i suoi
frutti. Le cinque giornate di Fossato, come mi viene
di intitolarle, quattro intere più due mezze anticipate ai
primi del mese di agosto (tiro al piatto con in palio un
vitello, e torneo di briscola con in palio un montone),
furono un grande successo. Successo per gli organizzatori,
ma soprattutto successo di partecipazione degli emigrati,
che, per l’occasione, quell’estate erano rientrati in numero
maggiore rispetto agli anni precedenti, portandosi tutta la
famiglia, nipoti compresi, anche se nati all’estero, e per
tutti i Fussatoti in generale. L’occasione era
speciale, di quella da non dimenticare facilmente. Il
programma minuziosamente studiato e messo in opera era
dedicato a loro, ai fossatesi sparsi per il mondo, che sono
veramente tornati bambini, Fussatoti i Fussatu,
riscoprendo i giochi della loro infanzia, mai dimenticata.
Sopita sotto la cenere dei ricordi ed esplosa in quei giorni
all’insegna dell’allegria, della spensieratezza, del
divertimento e delle amicizie ritrovate.
Navigate nel Sito
www.fossatoionico.it , il sito dei Fussatoti, le
immagini comunicano molto più delle parole scritte.
Sorge spontaneo
l’augurio e la speranza che il II° del prossimo anno
possa essere ancora più ricco, vario, divertente ed
amalgamante per tutti i Fussatoti, residenti e non,
per quelli che annualmente rientrano ma, soprattutto, per
quelli che non hanno la possibilità o quelli che, avanti
negli anni, non possono affrontare lunghi viaggi, ma che
saranno ugualmente presenti, con il cuore e con i sentimenti
dei veri Fussatoti, e il club farà in modo di farli
partecipi con le immagini delle numerose fotografie a loro
dedicate.
Il secondo motivo per
cui quell’estate rimarrà nella memoria di tutti fu il clima
torrido con un caldo infernale, africano, ma che tutti in
paese, in un modo o nell’altro, sopportarono. Tutti, tranne
qualcuno. “Mpari” don Cicciu, come ormai era
chiamato da tutti in paese anche se lui al don non ci
teneva più di tanto, non era più abituato e mal
sopportava quell’afa soffocante. Ricordava che da ragazzo,
durante l’estate, insieme agli amici coetanei scendeva
spesso verso la marina, affrontando quei venti chilometri
con qualunque mezzo, pur di andare al mare e rimanere
immerso a mollo nell’acqua per diverse ore, fin quasi al
tramonto del sole, evitando in quel modo la calura dei raggi
solari. Poi, col passare del tempo, degli anni, con tanti
sacrifici, riuscì a coronare un suo sogno. Quel sogno era di
farsi la casa alla marina, vicino al mare ed andare al mare
quando voleva e restare a mollo quanto voleva per meglio
sopportare il caldo estivo che quasi sempre era infuocato,
anche per via degli incendi che puntualmente radevano al
suolo tutti i boschi e la vegetazione del circondario,
incendiando anche l’aria. Ma mpari Cicciu
non aveva fatto i conti con il freudiano
complesso del giocattolo. E ci cascò anche lui. Aveva la
casa al mare, ma al mare non ci andava più. Soffriva il
caldo, sudava e pativa. Aveva la fronte sempre imperlata di
sudore. Goccioline di sudore si formavano alla base dei
capelli, poi scivolavano sul collo aggregandosi ad altre più
grosse e precipitavano lungo il canale della schiena
fermandosi all’altezza della cintura, inzuppando la
canottiera, la camicia e tutto quanto era in grado di
assorbire tutte quelle gocce. Come si suole dire, mpari
Cicciu era sempre in un bagno di sudore. Anche a casa
non trovava riparo. Girava per le stanze con il termometro
in mano, sperando di trovare qualcuna più fresca. Si
accontentava di qualche grado in meno, ma non c’era niente
da fare, il caldo invadeva tutto, anche le stanze più
“fresche”. Neanche all’ombra della grande e fitta pergola si
stava bene. Eppure mpari Cicciu l’aveva
piantata apposta in quell’angolo del piccolo orto. O faceva
l’uva, o faceva l’ombra, oppure tutte e due che era meglio.
Ma quell’estate fu diversa dal solito. La pergola fece l’uva
e l’uva rinsecchì per il troppo caldo. La pergola fece anche
l’ombra, ma rimase soltanto l’ombra di se stessa, una
macchia evanescente proiettata nel cortile, arroventata dai
raggi del sole, che quell’estate si era messo a fare
dispetti, peggio di quel mulo del mese di marzo,
come quando giocava a fare dispetti col pastore, che
fu sempre più furbo di lui e non si fece mai bagnare in
nessuno dei suoi trenta giorni, ma alla fine marzo,
rubando un giorno al fratello aprile, lo inzuppò
scaricando addosso a lui ed al suo gregge tutta l’acqua che
c’era nelle nuvolate.
Si lamentava, mpari
Cicciu. Si lamentava coi parenti, si lamentava con
gli amici, ma non trovava conforto, perché tutti si
lamentavano per lo stesso motivo. Faceva caldo e lo faceva
per tutti, senza sconti per nessuno. Poi qualcuno degli
amici gli suggerì di mettersi un condizionatore, almeno in
una stanza, per spezzare le gambe a quell’afa infernale,
creare una zona più fresca nella sua grande casa. Ma lui non
voleva, era un po’ restio, non si fidava tanto di queste
cose moderne. Ma poi si fece convincere. Si convinse vedendo
che in quasi tutti i balconi delle case vicine spuntavano
come funghi quella scatole quadrate chiamate “unità
esterne” dell’impianto, che si aggiungevano agli altri
funghi a forma di padella che servivano per captare
il satellite, altrimenti nel televisore non si vedeva
niente, solo nevicate. E si convinse ancor di più perché si
accorgeva che tutta la sua famiglia soffriva con quel clima
impazzito. E lui tutto sopportava, ma non sopportava vedere
soffrire la sua famiglia. Per nessun motivo. E così mise
mano al portafogli, tirò fuori quel paio di centinaia di
euro, anzi un bel paio di centinaia, e si fece installare il
condizionatore. Un “novemila” era più che sufficiente per
quella stanza, gli disse il suo installatore di fiducia, a
patto di tenere porte e finestre chiuse, altrimenti non
funzionava e gli raccomandò anche di mettere fuori un
bbagghiòlo per raccogliere l’acqua distillata, l’acqua
della condensa, come la chiamavano e che veniva
scaricata dall’unità esterna. L’acqua distillata poteva
essere usata per il ferro da stiro e per la batteria della
macchina e quando non serviva si poteva buttare nell’orto,
tanto, male non faceva. E poi c’erano le istruzioni che
aiutavano, sapendole interpretare, a far funzionare
il “novemila” al meglio della sua potenzialità, non
trascurando la possibilità di usare il telecomando che
evitava di prendere la scala ogni volta che si doveva
accendere o spegnere l’apparecchio. La prima volta che fu
acceso l’apparecchio, mpari Cicciu rimase un po’ confuso vedendo tutte quelle lucettine che ci
accendevano e spegnevano, e suonavano “mplin, mplon,
mplimpà”, ma quando sentì arrivare l’aria fresca i suoi
occhi si illuminarono e un’espressione di sbalordita
felicità pervase il suo volto. Fece chiudere porte e
finestre, fece controllare se il bbagghiòlo era al
suo posto poi andò in bagno a cambiarsi, mettendosi il
costume da spiaggia, prese una tovaglia di spugna, la stese
sul divano e si sbracalò sopra, togliendosi anche la
canottiera. Nella concitazione di sistemarsi non lesse bene
le istruzioni al punto in cui c’era scritto che i “flaps”,
cioè le alette del condizionatore, dovevano stare rivolte
verso l’alto, per evitare il contatto diretto con l’aria
fredda e così mpari Cicciu l’aria fredda se
la prese in pieno, anzi si sistemò al meglio per non
perdersi neanche un filo di quell’aria. La sentiva arrivare
alle caviglie, salire in su sulle gambe, intrufolarsi tra la
peluria del petto con piacevole sensazione.
Cumpari Cicciu allargò anche le braccia, sollevò
la testa offrendo anche il collo a quella ondata di fresco,
proprio come fa un “ straniero milanese”
quando arriva sulla spiaggia e si stende al sole ed espone
quando più possibile la superficie del suo corpo per
abbronzarlo, girandosi ogni tanto sul telo per abbronzare
anche la schiena. E così fece anche mpari Cicciu
sedendosi a cavalcioni su una sedia, girandosi per sentire
anche sulle spalle quell’aria fresca. Venticinque gradi
nella stanza dove c’era il condizionatore, cinque in più
nelle altre stanze, mentre fuori il termometro spaccava i
quaranta. Quei cinque gradi di differenza con la stanza da
letto non lo schiodarono dal divano, neanche quando era ora
tarda e bisognava andare a dormire. Decise che avrebbe
passato la notte sul divano, si sentiva a suo agio con
quell’ariettina bella fresca.
Fu verso le sei del
mattino, che un leggero starnuto, seguito da un “etccì”
più violento, lo risvegliò. E nel risveglio ebbe
l’impressione che qualcosa non andava, sentiva il bisogno di
coprirsi ma non aveva niente a portata di mano. Uscì nel
corridoio per andare nel bagno a prendere dall’armadietto un
altro telo da spiaggia per coprirsi, non volendo svegliare
la famiglia, ma richiuse subito la porta, investito come fu
da un’ondata di aria calda. Prese il telecomando armeggiando
per spegnere il condizionatore, ma quello non rispondeva ai
suoi comandi. Quel coso forse non funzionava bene. Si coprì
come meglio poteva con la tovaglia di spugna, ma un brivido
gli corse lungo la schiena quando sentì che il naso si
chiudeva e per respirare doveva tenere la bocca aperta. Un
primo colpo di tosse seguito da altri più frequenti e forti
e un po’ di dolore alle spalle mentre respirava. La sua gola
si stava arrossando, così come tutti gli organi respiratori,
la faringe, la trachea, i bronchi, i polmoni. Il dolore alle
spalle si era esteso anche alle articolazioni, il brivido
che inizialmente gli corse lungo la schiena, ora si era
impossessato di tutto il suo corpo facendogli anche battere
i denti. Eppure si era fatto giorno e i raggi del sole
filtravano già tiepidi dalle fessure delle persiane. Lo
prese il panico e uscì dalla stanza per chiamare la moglie e
i figli per dire loro che non si sentiva tanto bene. Lo “shock
termico” gli bloccò anche le corde vocali e la voce gli
morì in gola, sempre più infiammata. Il respiro divenne
flebile e sibilante, l’aria che entrava e usciva dai polmoni
fischiava come il sibilo del vento in una giornata di
tempesta, e non era sufficiente ad ossigenargli il sangue.
Ebbe un mancamento e scivolò sul duro granito del pavimento
urtando contro la porta che si chiuse rumorosamente. Il
rumore risvegliò tutta la famiglia che, balzando dal letto,
corse verso la zona da dove si era sentito provenire il
rumore della porta sbattuta. Lo videro per terra, quasi
paonazzo ed in piena crisi respiratoria. Lo sollevarono di
peso accompagnandolo sul divano, alzando gradualmente i
gradi della temperatura del condizionatore, e coprendolo con
un “plèd” piegato in due, per alleviare i brividi.
C’era il rischio che si mordesse la lingua. Non riusciva a
parlare, ma i suoi occhi cercavano aiuto e mentre uno dei
figli preparava una “Bentelan”, l’altro telefonava
al dottore di famiglia, il quale messo al corrente della
situazione, prese la sua borsa sempre pronta per gli
interventi d’urgenza, fornita di vari medicinali per ogni
evenienza a cui aggiunse alcuni strumenti per “ascoltare”
le spalle. Era abituato, il dottore, a lasciare parcheggiato
il suo mezzo di pronto intervento nel cortile con il muso
rivolto verso il cancello per poter partire subito in casi
urgenti. E quello era un caso urgente. Mentre il cancello
automatico si apriva, lui già metteva in moto il mezzo
, con la quale arrivò di corsa correndo.
Con lo stetoscopio
in posizione e la borsa aperta il dottore non pensò
neanche a spegnere il motore del suo mezzo, dal quale scese
prima che si sentisse l’ultimo scatto del freno a mano,
entrò in casa più in fretta delle altre volte, dirigendosi
verso la stanza dove si era riunita tutta la famiglia, in
attesa del suo arrivo. Si avvicinò sedendosi sul divano
accanto a mpari Cicciu, come era solito fare
quando si dava l’occasione di qualche visita urgente, e
cominciò ad ascoltargli le spalle, sollecitandolo a
tossire e dire trentatre. Lui già tossiva per conto suo e
non riusciva neanche a smettere, ma tra un colpo di tosse e
l’altro provò a dire trentatre, ma non aveva molto fiato e
il dottore non riusciva a sentirlo. Provò ancora e poi
ancora, ma quando arrivò a trecentotrenta non ce la fece
più, con disappunto del dottore che non riusciva a
districare la matassa di tutti quei fischi e rumori che
arrivano alle sue orecchie. Abbandonò lo strumento e usò
l’antico metodo del tamburello: due dita della mano sinistra
poggiate sulla schiena e il medio della mano destra a
tamburellare su tutta la superficie delle spalle del
paziente, che di pazienza non ne aveva più, sentendosi
sempre più soffocare. Gli echi e i rimbombi dei colpetti
sulle spalle avevano un suono molto cupo. Il dottore, che di
solito scherzava, divenne improvvisamente serio. Qualcosa
sotto le sue dita lo allarmò, qualcosa che solo lui intuiva.
Ma, prima di mettere mano alle medicine, volle fare un altro
controllo più approfondito con un altro strumento, di antica
fattura ma sempre valido: la trombetta di legno che,
appoggiata alle spalle del paziente da una parte amplificava
tutti i rumori provenienti dall’interno del torace e che il
dottore sentiva con l’orecchio dall’altra. E sentì quel
rumore che mai avrebbe voluto sentire. Il rumore di carta
accartocciata, stropicciata, ruvida, rasposa. Il rumore che
presagiva una estesa infiammazione dei bronchi e dei
polmoni, alveoli compresi, quella che i dottori medici
chiamano broncopolmonite, e questa di cumpari
Cicciu era di quelle brutte. Broncopolmonite acuta
che più acuta non era possibile. Il dottore scosse la testa,
mentre il colore del viso dell’ammalato diventava sempre più
“viola”. Aprì la borsa, il dottore, spargendo sul
tavolo tutto il contenuto, alla ricerca del medicinale più
indicato per quella malattia che sembrava fulminante.
Qualcuno della famiglia propose un eventuale ricovero con
ambulanza, al più vicino ospedale.
“Come volete, disse il
dottore, ma c’è il rischio che, una volta arrivati in
ospedale, qualcuno può dire che non c’è posto e vi
manderanno in un altro più lontano, dove si può ripetere la
stessa solfa: non c’è posto. Perdiamo solo tempo, ed ora il
tempo è prezioso, ogni minuto che passa senza intervenire
può essere pericoloso. Qui abbiamo una Farmacia ben fornita,
dove possiamo trovare tutto il necessario, anche le flebo”.
Tra tutto quello
sparpaglìo di medicine e siringhe che erano sul tavolo, il
dottore prese una siringa da 10, una fiala di lidocaina
ed un flacone di antibiotico in polvere, il più potente
per questo tipo di infiammazioni acute, preparò la
miscela, agitandola ben bene, e la iniettò per
endovena. Così faceva effetto prima. Cumpari Cicciu
non se ne accorse, o, se se ne accorse non disse niente.
Il dottore era molto bravo, oppure lui aveva già la febbre
forte.
“Questo è un
antibiotico che si usa in casi estremi, speriamo che faccia
effetto”, disse il dottore, intanto che prendeva il
ricettario per la prescrizione delle flebo e delle medicine
da prendere in farmacia il più presto possibile. Il figlio
minore corse più che potette, così veloce che sembrava non
poggiare i piedi per terra e in meno di mezz’ora era già di
ritorno con tutte le medicine segnate sulla ricetta. Nel
frattempo il maggiore aiutò il dottore a preparare il
trespolo per le flebo. Una pesante sedia da cucina, di
quelle di legno massello, la mazza da lavare e un rotolo di
skotch. La mazza da lavare, avvolta con una
tovaglietta pulita, fresca di bbucata, fu fissata
alla spalliera della sedia ad altezza giusta per permettere
la caduta del contenuto della flebo, che il dottore si
apprestava a preparare miscelando antibiotici,
antinfiammatori ed anche antipiretici, presagendo febbre
alta. Infilato l’ago a farfallina in una vena della mano la
bloccò con la garza ed un paio di strisce di “sparadrappo”,
poi aprì la valvola e regolò lo sgocciolìo. Aveva preferito
la vena della mano perché prevedeva che la cura con le flebo
sarebbe durata un bel po’, se tutto andava bene. Poi
raccolse le sue cose nella borsa e spiegò alla famiglia come
fare quando finiva la flebo e raccomandò di avvisarlo in
qualunque momento, nel caso il colore del viso dell’ammalato
dovesse diventare più scuro, ma che, comunque, lui sarebbe
passato lo stesso per controllare. E passò spesso, come era
sua abitudine, e per il rispetto della famiglia, che si
meritava. Ad ogni visita si tratteneva sempre di più, per
tenere il paziente sotto controllo, diceva. Ma faceva
capire, e lo diceva anche, che stava bene anche lui nella
stanza condizionata. Un po’ di fresco lo faceva riprendere
dalla calura esterna. Due volte al giorno passava per la
visita, ma mpari Cicciu trovava poco
miglioramento, anche se, per la verità, non peggiorava. Le
sue condizioni erano quasi sempre alla stazione,
stazionarie, non reagiva tanto bene alle medicine e aveva
sempre quel colore viola sul volto. Dopo una
settimana il dottore, dopo l’ennesima visita, riunì la
famiglia e parlò francamente, come era abituato al suo
solito con loro. Manifestò le sue preoccupazioni, senza fare
tanti allarmismi, ma per il sì e per il no, suggerì loro di
mandare qualche mbasciàta a Carmelo Damiano Pellicanò.
Poi uscì di casa, un
po’ arrossato e con atteggiamento sconsolato e si avviò
verso il suo mezzo parcheggiato davanti al cancello,
accompagnato da tutta la famiglia di cumpari Cicciu
, anch’essa sconsolata. Il dottore stava per salire sul
mezzo quando fu colto da una serie di violenti “Etccì!”,
e fece in tempo a prendere un pacchetto di tempo dal
borsello, prima di posarlo sul sedile accanto al posto
guida, e fece appena in tempo a tamponare il naso inumidito,
sintomo di incipiente raffreddamento. Poi mise la chiave nel
blocchetto di accensione girandola per mettere in moto.
L’auto sembrava non avere voglia di partire, il motore
tossicchiava in continuazione, almeno così sembrava. Ma un
orecchio più attento sentì che il motore si era avviato e
girava regolarmente, bello tondo. Non era il motore che
tossiva, il motore stava bene, era il dottore che cominciava
a stare male, e la tosse non era del motore ma la faceva
lui.
Finisce qui il
racconto di quell’estate pazza e infuocata. Mpari
Cicciu piano piano si riprese, anche se impiegò molto
tempo a tornare quello di prima. La botta era stata di
quelle toste, ma non ci fu bisogno di allertare Carmelo
Damiano Pellicanò. La cura del dottore era quella giusta e
la usò con se stesso e….. mentre cumpari Cicciu
cominciava a guarire, il dottore cadeva ammalato. Per colpa
del condizionatore e della infuocata temperatura di quella
estate pazza. Anche il dottore guarì. Impiegò meno tempo di
cumpari Cicciu, ma era più giovane, e poi, si sa, i
dottori medici, devono guarire prima delle personale
normali, lo hanno giurato davanti a uno che si
chiamava Ippocrate, e quel giuramento valeva per
tutta la vita.
Cumpari Cicciu
capì che il condizionatore è una bella invenzione, ma, come
tutte le belle invenzioni, vanno sapute usare con giudizio
perché dal benessere al malessere il passo è breve e il
rischio è grosso, molto grosso, si può rischiare il cambio
di residenza, con il trasferimento forzato a “piraredha”.
E come lo capì cumpari Cicciu, lo capì anche il
dottore.
Come al solito vi
saluto, cari Fussatoti, ….ah, dimenticavo il P.S. :
non ci fate caso agli errori grammaticali, di ortografia e
di sintassi, quando capitano bisogna lasciarli stare,
perché, a volte, è bello scrivere come si parla. E noi
Fussatoti abbiamo una bella lingua ed è un peccato
abbandonarla.
Francesco P.
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