"FUSSATOTI" RITORNATE VIRTUALMENTE ALLE VOSTRE ORIGINI"

  
 

PERSONAGGI FOSSATESI

 

La storia di Fossato è stata scritta nel bene e nel male con il passare degli anni da gente comune, contadini, braccianti, qualche professionista, qualche insegnante comunque attori diretti ed indiretti della evoluzione economica, sociale e culturale del paese stesso. Per quanto la mia memoria ricordi, senza fare torto a nessuno per gli anni che vanno dagli anni 50 agli anni 70 i personaggi famosi secondo un mio modesto giudizio sono:

Carmelo Cirivillino

Carmelo Silivoti (Cirivillino) si mantenne sempre, nonostante l'età, un giovanotto di sessant'anni, come se madre natura lo avesse dotato del dono della fanciullezza eterna. E si atteggiava come quelli che si erano visti al tempo della sua gioventù nei paesi  la domenica, quando si mettevano in mostra per estorcere un timido sguardo alle signorine uscite dalla messa. Assecondava un personale concetto d'eleganza ed esibiva come nuovi di cassone resti di un guardaroba di trent'anni prima. Con raffinata trasandatezza, alla sportiva – diceva - secondo gli ammaestramenti del "maggiore Curcio cavaliere Giuseppe di Rosarno", di cui era stato attendente. L'emulazione dello stile dell’ufficiale gli  era servito a distinguersi dalla bassa forza al tempo della leva e a trarre insegnamento per il resto della vita borghese. Al felice accostamento dei capi aggiungeva la camminata  e lo scrocchio della scarpina. Il bastone in mano per eleganza e la foglia di menta all'orecchio davano risalto al dondolare alterno delle spalle: la "'nnacàta" caratteristica della "generazione franca e libera in attività" dell'anteguerra.  Portava i capelli, lucidi di brillantina (un intruglio di olio e scorze d'arancia spina), separati da un'impeccabile riga e tagliati all'umberta. Spesso era evidente la mano non sempre felice del Ragno, aggiustasedie e barbiere a tempo perso; per la barba si serviva invece da don Peppe Fungia, che aveva attrezzato un magazzino a bisca e a salone con la poltrona americana con poggiatesta. Carmelo portava al collo il "camuffo" di seta annodato alla gaglioffa, paglietta sulle ventitré e camicia bianca "immacolata", di quel bianco particolare degli scapoli di una certa età che si lavano da soli. Seguiva cioè con coerenza i canoni di una raffinatezza che credeva immutabili nel tempo e che rappresentavano la perfezione di stile nelle piazze di paese e sui mercati di bestiame.

             Carmelo era solito camminare al centro della strada e passando distribuiva saluti con maniere d'altri tempi, ma senza sbagliare virgola con le donne. Esaltava la valentezza dell'uomo e disprezzava il "femminino", la donna.

             "Il bue per le corna, la donna per i capelli e l'uomo per la parola. Mannaggia il nemico della Madonna! Te lo dice Carmelo che di cervello ne ha da vendere qua, fuori di qua e in ogni località."

             Fiero nel gesto, ieratico nell'eloquio, Cirivillino parlava sempre esclamativo e adoperava il gergo "mascolo", che con lui risorgeva agli antichi fasti di un mondo d'onore e d'omertà di quando il sale costava un tornese. Ora che "pure il sale sta facendo vermi", riviveva epopee di valentezze ed episodi di cavalleria rusticana di uomini d'onore in discorsi che partivano da Favignana, madrepatria della camorra, per approdare alle pecore del massaro Ambrogio.

             Quando cominciava uno di questi racconti Carmelo attingeva a piene mani al patrimonio facondo delle segrete fantasie per creare momenti di grande teatro. Declamando con ritmi da melodramma gesticolava come un tragico greco, strabuzzava gli occhi da invasato e faceva stridere i denti assumendo una maschera terribile che dava comica credibilità al discorso. Lui, Carmelo Cirivillino, nominato anche Silivoti, "cuore di lione, stella in fronte, palma in petto e spada in mano", avrebbe "tagliato" in duello chiunque, pure Santo Scidone, il più valente tiratore di sferra di tutta l'onorata società.

             Ma c'era sempre qualcuno che sottolineava con sfottò le sue esagerazioni da bislacco angelo della distruzione. 

            "Bum! Carmelo, la sparasti grossa. Aprite una finestra." 

            "Va be', mi feci vecchio ormai. Ma una volta facevo il mastro di ballo alla festa di Reggio! Che ti credi?"

             Poi, dopo una pausa necessaria per cambiare registro e per marcare la differenza di livello che c’era tra  lui e quel crasto che si era permesso di sfotterlo, cominciava il suo ammaestramento a edificazione della gioventù.

             "'Che stanziate, amico, grugno o piede di pero?' Se cercano di "scantonarvi", di sottomettervi con questa domanda dovete fare attenzione a controbattere. Guai! Dovete rispondere a tondo di palla: 'Badate a come parlate, amico. Qua c'è gente degna e meritevole con sangue agli occhi.'"

             Carmelo seguiva un personale, imponderabile filo del discorso, ma per non far prendere troppa aria al vino della bottiglia, affondava il coltello "Marietti" nel pecorino che teneva sempre avvolto in un foglio di giornale in una delle rigonfie tasche della giacca, portava alla bocca una robusta fetta aiutandosi con la lama del coltello e tracannava tutto d'un fiato il bicchiere. Poi con scioltezza lo capovolgeva destinando le ultime gocce alle mattonelle del pavimento per la gioia di chi avrebbe dovuto pulire.

             Quando attaccava discorso voleva paglia per cento cavalli. Sapevi quando cominciava, ma non quando finiva. Con l'immancabile bicchiere davanti ("Per dare una puntata al medico") e le gambe accavallate. Lo stridio della sedia su cui sedeva era continuo ed esasperante. Prima di cominciare si arrotolava la sigaretta di trinciato e la accendeva con una fumosa macchinetta a benzina. Sputava per terra la pagliuzza di tabacco che fuoriusciva dalla carta dopo averla strappata con le labbra, osservava il manufatto tenuto tra pollice e indice con la brace verso il cavo della mano e col mignolo scuoteva la cenere. Una ravviata alla capigliatura, osservava il palmo della mano, toglieva qualche capello rimastovi attaccato, lo guardava come soppesandolo e lo lasciava cadere per terra strofinando i polpastrelli delle dita. Si schiariva la gola, controllava la brace della sigaretta e finalmente era pronto a cominciare la rappresentazione.

            Parlando faceva schiumarra. Per la lingua abbondantemente oleata dal vino, un rivolo di bava gli colava dall'attaccatura delle labbra fino al mento. Allora cavava di tasca un fazzoletto stazzonato e se lo passava ripetutamente sulla bocca. Prima di riporlo lo teneva raccolto nel pugno della mano come un cimelio. Una pausa e una sorsata di vino, spegneva la sigaretta e conservava il mozzicone nella tasca della giacca senza badare se andasse o meno a finire nell'involto del formaggio o di altre cibarie di pronto uso che portava sempre con sé.

             Quando riviveva avvenimenti che lo avevano mosso a sdegno, si alzava in piedi guizzante, stringeva i pugni e arrotava paurosamente i denti. Gli occhi velati di folle furore quasi sgusciavano dalle orbite ed emettevano lampi di odio incontenibile. Le mani contratte sferzavano l'aria. La testa, dai capelli scompigliati, si ergeva sul collo come una torre e si muoveva come quella di un automa. Risorgeva allora il tragico greco all'epilogo del dramma che consuma l'atto risolutore.

             Nel cuore del racconto, però, quando stava per scaturire il finale, fatto attendere con pause perfette, si interrompeva e, con il suo zampillante sorriso, cantilenava:

 "La vecchja supra lu furnu

chi filava notti e jornu,

si vutau 'na bampa di focu

e 'nci brucjau lu papatornu."[1] 

            Oppure, accennando passi di una sgangherata tarantella senza suono, incitava al riso con le parole di una canzone di accompagnamento:

 "La Madonna di Luritu,

quantu è grandi 'sta hjumara!

Si si leva lu cannitu,

non si fannu cchjù panara."[2]

            "Ridete, merdicelle, ridete. Poi quando mi faccio vecchio, mi prendete a pietrate!"

All’improvviso si rifaceva serio e si rivolgeva ai  bambini con tono didascalico:

"Amico, che siete, lupo o lapa?"

Don Nunziatu di Larenzo

 "Cannozza di pipa!" gli rubava il tempo don Nunziato di Larenzo (Cozzodarenga), che (sdisonorato e ‘nfamo lui e la morte che non se lo leva) lo aspettava al varco sornione come un gatto con il topo in bocca.

             "Zitto, scecco!" e con un breve movimento della mano Carmelo gesticolava come per scacciare una mosca fastidiosa. Poi sacrale continuava: "Sono lupo di montagna che tiene sangue agli occhi."

             Don Nunziato, avvezzo a prendere sempre la gente contropelo, lo rimbeccava con la sua celebrata sensibilità di paracarro:

             "Alza la coda!"

              "E torna Nina con l'oro! Ditemi voi se qualche giorno non lo devo scannare con il coltello. 'St'animale è contento solo quando punge l'asino dei cristiani nella salita. E' tanto disonorato che per fare dispetto alla morte stirerà le gambe a occhi aperti... Dunque, andiamo avanti. Che stanziate, amico, grugno o piede di pero?" 

            "Crasto casaloro!" sottolineava don Nunziato ridendo a bocca piena per la nuova chiosa acida.

 

             "Guardatelo là." lo indicava Carmelo all'esecrazione generale. "E' invidioso pure di quelli che  contano solo il quarantotto a scopa!"

             La figura di don Nunziato, uomo di virtù per niente preclare, rimaneva legata indissolubilmente al ricordo di Carmelo che con lui per molto tempo divise pane e sonno. Uomo materiale per natura, umbratile e permaloso, gli occhi porcini percorsi da una vena di follia, don Nunziato aveva consumato i suoi anni prendendo in giro se stesso e il mondo. Nella sua neghittosa esistenza provava un incontenibile desiderio di divertirsi a spese degli altri, in specie degli amici e dei parenti. Prendeva ogni cosa a gabbo per dare sapore alla sua vita insulsa e ci riusciva con estrema facilità grazie a una non comune lingua tagliente con la quale riduceva a letame persino l'ostia consacrata. Con questi metodi riusciva ad avere torto anche le poche volte che aveva ragione.

             Il sodalizio tra i due datava fin dalla giovinezza e poggiava sul sano pregiudizio per il lavoro. Erano accomunati dal modo di intendere la vita, tenendosi a rispettosa distanza da fatiche e preoccupazioni e mossi dal vivo interesse a cogliere ogni occasione di gozzoviglia e bel tempo. In questo don Nunziato, di seria quanto fallace reputazione, era molto più intraprendente e trascinava l'altro che frapponeva pro forma soltanto un fragile velo di resistenza, prontamente rimosso dopo il primo bicchiere. I loro festini erano proverbiali. Come quella volta che per commemorare degnamente non si sa quale avvenimento bevvero tanto che alla fine ubriacarono persino la capra di Carmelo, Teresina, che da quel giorno prese il vizio.

             Come tutte le amicizie basate sull'affinità, anche la loro aveva conosciuto alti e bassi, questi ultimi causati dal comportamento a sfotticristiani di don Nunzio, che aveva trovato nel remissivo Carmelo bersaglio disponibile a subire, ma spesso costretto a ricorrere alla minaccia del coltello per rintuzzare le rozze e fragorose bordate dell'amico. Don Nunzio indulgeva al sottile piacere di martirizzare Cirivillino con parole salate che avrebbero schiodato persino le tavole del solaio. Tutta la vita lo aveva pizzicato, ma nella cementata amicizia - il loro astio era di poco momento - si accompagnarono sempre a "far danno" (come si diceva in paese) nelle campagne, fin quando don Nunziato morì di vecchiaia. Partivano con la vecchia Rénault a giorno fatto, ben equipaggiati di vettovaglie e di vino, con l'intenzione di fare qualche lavoretto. Ma arrivati a destinazione, scaricavano la roba e celermente si accingevano a prendere bivacco. Dopo conviviale e lungo pasto si allungavano sulle frasche alla godereccia con un filo di ginestra in bocca e le mani dietro la nuca. Le ore trascorrevano lente, il sole arroventava le campagne e i nostri tenaci guerrieri della lotta quotidiana, impassibili nel placido torpore, si rotolavano per terra seguendo l'ombra delle piante. Si sarebbero rialzati all'ora del ritorno, quando il sole si infilava di taglio sotto gli alberi, dopo aver smaltito nel sonno il vino trangugiato. Il lavoro, beninteso,  era rimandato ad altra più propizia occasione.

             Avevano battuto anche i paesi della marina "ad annusare la coda alle ragazze"; lì le "muchache" - stando almeno alle convinzioni di don Nunzio, anche lui maturo scapolo, ma, a differenza di Carmelo, dalla celebrata e mai sopita fregola inappagata - erano più allegre, propense alla confidenza e, lasciava intendere Cozzodarenga, disponibili non solo a quella. Don Nunzio si metteva alla guida lungo la provinciale e correva come un asino di maggio che sente l'asina ragliare. Ma se anche i paesi della costa fossero stati i più licenziosi luoghi di perdizione e di lussuria, mai successo avrebbe potuto arridere alle loro maldestre spedizioni libertine.         

Faceva difetto a  Cozzodarenga, oltre l'età e il "physique du role", la gentilezza  e il garbo nei modi per sedurre e conquistare. Aveva un discutibile concetto personale del decoro, anzi sembrava provare godimento quando riusciva a disgustare il prossimo con comportamenti da far storcere la bocca anche ai bastasi del porto. Né, d'altro canto, supplivano alla goffaggine sufficienti mezzi finanziari da mettere in bilancio per quella posta: mai e poi mai sarebbe passato nel suo cervello l'idea di largheggiare nelle spese per far fronte a situazioni in cui sarebbe stato opportuno essere per lo meno brillanti. ("Quella cosa non l'abbiamo mai pagata, noi!". Riporto, per intenderci, la sua esclamazione di vanto che avrebbe volentieri sottoscritto anche davanti al giudice).

             Erano quindi animati solo dalla buona volontà e dalle intenzioni di don Nunzio, ché Cirivillino si lasciava trascinare quasi abulicamente: e con queste sole qualità, è risaputo, si fa poca strada. In definitiva, in campo amoroso potevano essere annoverati a buon diritto tra i devoti di San Giziaco, patrono delle disfatte. Soprattutto a onta e disdoro di Cozzodarenga, perché Carmelo per naturale ritrosia e timidezza manteneva la posizione di appoggio sia perché consapevole dei comportamenti buzzurri del socio sia perché, alla fin fine, dopo una ferita subita in gioventù e mai rimarginata, delle donne non gli importava più di tanto. I nostri attempati "giovani di vita" alla ricerca di amori fuori stagione furono così protagonisti di grottesche ed esilaranti vicende entrate in pompa magna nel vasto repertorio dell'aneddotica faceta del paese. 

            Prim'attore di quelle farse fu sempre don Nunziato, ma una volta prese l'iniziativa Carmelo, che non ne poteva più e si volle togliere lo sfizio di dare una lezione di savoir vivre a Cozzodarenga. Erano a passeggio sulla via principale di Melito e videro venire verso di loro una bella signorina vestita alla moda, con un barboncino al guinzaglio. Cirivillino si fece ardito e si avvicinò ad accarezzare la bestiola che si mise a guaire.

             "Cuci, cuci... Che bel cagnolino, signorina!"

             Don Nunziato non perse tempo, diede uno spintone a Cirivillino e a denti stretti gli impose:

             "Animale, accontentati del cane, ché la signorina l'ho vista prima io!"

             Comunque, alla fine di tutte le loro infruttuose spedizioni, per non perdere del tutto il viaggio finivano a cercare consolazione in qualche osteria davanti a un piatto di pesce stocco.

             "Per mangiare e bere mi puoi fottere", si vantava convinto don Nunzio, grattandosi la schiena contro il muro. "Ma per femmine...!"

             "Soprattutto con la tua eleganza! Quando ti pari a festa sembri un mazzo di ramaglie legato con quella cinghia che sfigurerebbe persino come sottopancia di scecco. Hi, lupo! Vai con quel sacco al mulino tu..." ribatteva Cirivillino e con queste parole ironiche sostituiva quelle più pesanti che nascondeva dietro ai denti, ma che agli intimi riferiva palesando la sua opinione sulla pretesa spropositata di don Nunzio di sposare a tutti i costi una maestra di scuola, non importandogli null'altro del suo stato e della sua avvenenza ("Belle o brutte, mi piacciono tutte.")

             Non era raro però che le vanterie del socio lo costringessero a chiudere il conto con la desolata esclamazione:

             "Sì, la regina Taitù!... A te? Non ti vorrebbe manco l'asina scalcagnata di 'Ntoni Màrmoro."

             Ma l'altro conto, quello dell'osteria, se lo sobbarcava regolarmente Carmelo perché don Nunzio, emerito taccagno, fu sempre poco propenso a mettere mano al portafoglio. Anche in queste circostanze, per affogare l'amarezza e lo sconforto per l'insuccesso, non si parsimoniava col vino, fidando sulla protezione di qualche santo deputato a correggere all'ultimo momento le pericolose traiettorie della Rénault durante il ritorno per le strade di montagna.

            Tuttavia l'occasione più ghiotta per lo sfottò di Cozzodarenga si presentava quando Carmelo trattava infervorato della "società" e si esibiva nel vasto campo delle regole sociali.    

            "Quante giornate di lavoro franco ti sono costate le regole sociali, Carmelo?" graffiava mordace calcando la mano. " Ogni regola, una giornata di zappone gratis a beneficio della 'società'..."

             "Fatti strabenedire, Buttozzo!" ribatteva Carmelo con amichevole irritazione, apostrofandolo con il nomignolo che l’altro si era guadagnato per le generose proporzioni. "'Sto cornuto era tanto disonorato che rubava i soldi a sua mamma, comprava un sigaro puzzolente e se lo rivendeva un tanto a tirata. Uno si comprava, mettiamo, un paio di boccate e se le fumava. Poi 'sto infamone gli strappava il mozzicone dalle mani, pronto a vendere a un altro la sua porzione di tirate. Ma di soldi non ne ha mai visti: li avanzava. E mo' li pigli! Crescendo non è migliorato. Sai che faceva in Cirenaica durante la guerra? Vizio di natura, fino a sepoltura, malanova! Vendeva tè a credito ai soldati girando con una gamella piena di brodaglia. Fin quando a Marsa Matrouth, sulla frontiera tra Libia ed Egitto, una bomba non lo sotterrò insieme al quaderno della credenza." 

            E don Nunziato, col faccione congestionato, tirava il carico da undici che aveva tenuto in serbo e saettava intorno lo sguardo bovino per invitare al riso di approvazione. 

            "Carmelo, ti sei guadagnato un peto da cento lire. Racconta piuttosto di quando ti presero di malandrineria le scarpe nella fiumara di Valanidi." 

            "Va a pigliarla a Malta, cetriolo! A te le avrebbero sequestrate se non fosse intervenuto il sottoscritto a mettere in riga quei quattro beccamorti."  

            Poi Cirivillino faceva con faccia costernata: 

            "Parla sempre sporco, questa pezza da piedi, come se avesse il culo al posto della bocca. Don Nunziato? Un grande intellettuale! Non voglio vedere più né lui, né mal'annata di grano." 

            Cozzodarenga, per non smentirsi, sputacchiando saliva e con vocione gutturale, lo apostrofava con incomprensibili espressioni arabe di spregio che aveva malamente imparato ascoltando i veterani in Libia durante la guerra. 

            "Anta chelèm fàraq mush magùl! Sert harà, himàr! Barra bisur-ra!"®

            Il gargarismo, con qualche variante di poco conto, era sempre uguale e più o meno voleva dire: 

            "Stai dicendo sciocchezze. Vai a cagare, asino. Levati subito dai piedi." 

            Carmelo non si lasciava impressionare da quell'improbabile repertorio linguistico e con allusione alla avventura africana di don Nunziato - dalla quale era stato tirato fuori per tempo grazie ai provvidenziali capicolli con cui i parenti avevano preso per fame un ufficiale del distretto di Reggio - ridacchiando pacatamente gli cantava a sfottò: 

"Già la nave si stacca dal porto

e la folla d'intorno plaudisce,

tutti restan, lui solo partisce,

richiamato, cornuto soldà." 

            Visibilmente risentito, don Nunziato, con le vene del collo gonfie da farsi calare l'ernia, urlava da scompigliare i capelli: 

            "Io non mi sono mai imboscato nelle retrovie a fare l'attendente di nessuno. Non ho pulito il culo al maggiore Curcio come hai fatto tu. Non solo sono stato in zona di guerra, ma ho combattuto con onore e sono stato decorato al valore militare!"

             “Vazzammàra vitti iù?” [3] rintuzzava in inglese Carmelo: anche lui sapeva le lingue! E poi con calma imperturbabile, per una volta trionfante:

"Ha parlato il benemerito della Patria, il colonnello Castagna, l’eroe di Giarabub!”  

E gli canticchiava:

“Colonnello, non voglio il pane,

Dammi il piombo pel mio moschetto!

C’è la terra del mio sacchetto

Che per oggi mi basterà. 

Colonnello, non voglio l’acqua,

 Dammi il fuoco distruggitore!

Con il sangue di questo cuore

La mia sete si spegnerà.…

Colonnello, non voglio encomi,

Sono morto per la mia terra!

Ma la fine dell’Inghilterra

Incomincia da Giarabub.”

 “Ah ‘nimàle,  stortu, ringrazia i tuoi parenti piuttosto, che ti hanno salvato la ghirba". 

 E continuava recitando a memoria il volantino di raccomandazioni che il regio esercito distribuiva con i preservativi alle truppe in partenza per la Libia:  

            “Le malattie delle donne sono un veleno terribile. La lue africana brucia più di una fiamma. Non dimenticarti mai di premunirti del superprofilattico che è la guardia italiana degli italiani”. 

            A questo punto don Nunziato mollava il campo e per non darsi vinto si allontanava minacciando con falsa animosità: 

            "Lasciatemi andare, altrimenti finisce male. Come è vero Dio, faccio il terremoto di Casamicciola!" 

            "Via, vai via, cane malato!" lo accompagnava la risposta di Carmelo, intento con teatrale voluttà a restituirgli la grattata di schiena contro lo stipite della porta: una volta tanto era riuscito a tenere botta all'amico. 

 

Don Lorenzo Nicolò

"Bravo, avete fatto bene, figlio. Quello ha scarafaggi in testa!" interveniva don Lorenzo Nicolò che, capitato per caso, era stato ad ascoltare in silenzio. Memore delle spaventose carneficine della Grande Guerra alla quale aveva partecipato rivestito di grigioverde come bersaglio del tirassegno in trincea, il vecchio, con il bicchiere in mano, sentenziava: 

            "Meglio porco che soldato. Voi dite che scappare è vergogna? No, è salvazione della vita. Ve lo dice uno che ne ha viste. Neanche ai più nemici capitali!" 

            Carmelo conveniva con don Lorenzo e soddisfatto si lasciava andare a un'insolita, elegante scurrilità, perché quando ci vuole, ci vuole, santodià! 

            "Che vada a rompersi il culo dolorosamente con una pietra  fucirigna, che gli fa bene! E a chi domanda gli dica che è caduto."

 

 ® 

(originale in lingua araba)


[1] La vecchia sul forno/ che filava notte e giorno,/ si girò una vampa di fuoco/ e le bruciò la lumaca (lett.)(allude al sesso).

[2] La Madonna di Loreto,/ quanto è grande questa fiumara!/ Se si porta via il canneto,/ non si fanno più panieri.

[3] Broccolino, italo-americano per “What’s the matter with you?” Cosa c’è che non va? Qual è il tuo problema? In definitiva: Che cazzo vuoi?