S A F A R I   !!! 

Agostino, nostro carissimo amico, aveva un grande passione. La sua passione era l’Africa, in tutta la sua grandezza, dal Marocco all’Egitto e tutti gli altri Paesi bagnati dal Mediterraneo, dalla Repubblica della Jamahirya al Sudafrica e tutte le altre Nazioni dall’Atlantico al Mar Rosso fino all’Oceano Indiano, ma soprattutto i paesi dell’Interno, con i loro deserti in contrasto con le montagne lussureggianti, le immense savane, i fiumi, i laghi, le cascate, i vulcani. Solo per citare alcuni: La Tanzania con la depressione della Dancalia, i piani del Serengeti, i vulcani; il Kenia  con le depressione del Rift Valley, del Masai Mara, il lago Turkana, i lunghi millenari sentieri di migrazioni di gnu e zebre e il massiccio del Kilimangiaro; il Botswana con depressioni saline di Makgadikgadi, il deserto del Kalahari ed infiniti altri posti che non basterebbe un’enciclopedia per descriverli. Ma il nostro amico Agostino aveva ben impressi in mente, avendo memorizzato ogni più piccolo particolare di tutti i documentari mandati in onda dalla straordinaria ultratrentennale trasmissione televisiva “Quark” del grande Piero Angela, non tralasciando le puntate speciali e le riedizioni. Agostino aveva tutto racchiuso nella sua mente, dove aveva costruito la sua Miniafrica, alla stessa stregua di Minitalia di Capriate san Gervasio, dove i visitatori hanno la possibilità di lasciare libera la propria fantasia e fare un affascinante viaggio in poche migliaia di metri quadrati di territorio godendosi tutta l’Italia. Agostino, in un cassettino della sua mente, teneva nascosto un sogno e coltivava la speranza di poterlo realizzare in un qualsiasi momento della sua vita. Aveva imparato tante cose sulla flora e sulla fauna dell’Africa, ma quello che lo appassionava oltre ogni dire era l’osservazione, messa in grande evidenza dalle trasmissioni, delle precise leggi della natura, cui sottostavano tutte le specie del regno animale. Il regno animale ubbidiva e rimaneva sottoposto a tutti gli istinti  primordiali stabiliti  della stessa Natura. La giornaliera lotta per la sopravvivenza scandiva il trascorrere del tempo, dove la selezione naturale della vita ubbidiva alla legge del più forte. Il regno animale rappresentava quanto di più vicino al perfetto la legge della natura aveva stabilito sin dalle sue origini. Il più forte andava avanti, il più debole soccombeva. Tutte le  specie animali avevano un ruolo ben preciso, istintivo mai modificato nel corso della millenaria storia dell’evoluzione. Gli erbivori si moltiplicavano per far vivere i carnivori, i quali a loro volta avevano il compito, stabilito dalle leggi della natura, di fare la selezione, eliminando i più deboli ed incapaci di difendersi, trascurando i più forti, i quali, a loro volta, avrebbero avuto dei discendenti più forti e capaci di sopravvivere e salvaguardare la specie.

Questo è il regno animale!  I carnivori uccidono per sopravvivere……non per odio o per vendetta……

Il nostro amico Agostino sapeva tutte questa cose e continuava a coltivare il suo sogno di andare in Africa per vedere e toccare con mano quanto aveva visto attraverso i canali televisivi e i  giornali specializzati.

La fortuna gli venne incontro e come in un sogno riuscì a realizzare il suo sogno.

Si ritrovò in Africa visitando tutto quel che c’era da visitare, da rimanere incantati, evitando, nei limiti del possibile le zone “calde”, con guerre civili in corso o a rischio, evitando di essere coinvolto in scontri tribali. Preferiva frequentare i territori dove era più abbondante la faune selvatica, con presenza di belve e fiere. Le savane avevano la precedenza nelle sue  preferenze……..Ma qualcosa non andò per il verso giusto in quel suo sogno. In modo un po’ confuso ricorda di essersi spinto fuori dalle piste conosciute, senza guida e senza armi. Lui non era un cacciatore, aborriva l’uccisione di un qualsiasi essere vivente, senza giustificato motivo. Le sue sole armi erano la vecchia, ma pur sempre valida, Reflex  ed il teleobiettivo per le foto a distanza, ma che usava anche solo per osservare quello che accadeva intorno. In quel momento avvertiva vampate di calore che gli cerchiavano la testa, nonostante il cappello a larghe tese. Si era appoggiato al tronco contorto di un isolato vecchio albero rinsecchito, sperando di trovare un po’ di frescura all’ombra di fronde e foglie inesistenti. Il caldo afoso di quella secca giornata gli faceva bruciare la gola, neanche la borraccia riusciva a tenere fresca la poca acqua che era rimasta, anzi bere quell’acqua gli procurava maggiore fastidio alla gola. Sentiva che stava per svenire, e svenne cadendo ripiegato su se stesso, battendo il capo su un nodo del tronco dell’albero secco. Cadendo rotolò giù dalla piccola balza del terreno e rimase avviluppato tra le radici dell’albero, le quali, in epoche lontane, in un estremo tentativo, si erano avventurate fuori dal suolo anche solo per assaporare la rugiada che nella notte si impietosiva anche della savana, nella misera speranza di poter sopravvivere. Speranza vana. Erano lì, anch’esse rinsecchite, che trattenevano, come in un abbraccio, il nostro amico, immobile, con gli occhi chiusi e un piccolo barlume di coscienza. Una parte di sé sembrava vigile, ma di una vigilanza altalenante. A momenti aveva l’impressione di sentire movimenti, tramestii, a momenti nulla. Poi sentì la risata, una risata che non aveva nulla di umano. Non riusciva ad aprire gli occhi, il suo cervello arroventato non dava ordini sufficienti. Non tutti i suoi sensi erano a posto, ma sentì ancora quel riso ferino. Un lampo, una memoria lontana, ed in quella memoria vide la Jena, la Jena ridens, e si sentì perduto. Sentiva la sua vita allontanarsi, man mano che le mascelle della belva cominciavano a stritolare le secche radici del secco albero, per potersi avvicinare al suo corpo, ormai incapace di qualsiasi forma di reazione, impotente, abbandonato, rassegnato al suo destino. Si sentiva scoppiare la testa dalla forte calura degli impietosi raggi del sole che lo colpivano in pieno. Cominciò a sentire strattoni sulla sua sahariana, ma non vedeva se non il nulla, mentre avvertiva un’altra risata, più giovanile, meno matura. Sembrava quella della Jena figlia. Perse la speranza di fare una fine repentina, senza sofferenza. La sua sarebbe stata una lunga, atroce, indicibile agonia. I filmati passavano velocemente in quella linea libera del suo cervello, la linea della memoria. La Jena madre non lo avrebbe azzannato alla gola spezzandogli anche le vertebre cervicali per finirlo subito. Non era sola e le rigide leggi della Natura le impedivano di fare quello che avrebbe fatto se fosse stata sola. Aveva la figlia con sé e il suo compito in quel momento era duplice. Doveva procurare il cibo e doveva insegnare alla figlia come procurarselo, come lottare per procurarselo, come strappare ed ingoiare interi bocconi della carne della preda per nutrirsi e come immagazzinarli nello stomaco per trasportarli, per lunghe distanze, agli altri componenti del suo branco, per nutrirli e farli crescere. E la piccola imparava, osservando la madre. Ne andava della sua sopravvivenza, della loro sopravvivenza. Anche se non aveva mascelle forti come quelle della madre, strattonava come meglio poteva. Mugolavano tra di loro, sghignazzando. Sembrava parlottassero un linguaggio incomprensibile e che solo loro comprendevano. La Jena madre era molto esperta, si guardava continuamente intorno, non si sentiva tranquilla in quella balza del terreno sotto la linea dell’orizzonte. Un’improvvisa comparsa di qualche leonessa non le avrebbe dato scampo, pertanto preferiva trasportare la preda al di sopra della balza stessa per avere un campo visivo molto esteso intorno. In quel modo si sentiva più al sicuro. In caso di immediato pericolo aveva la possibilità di darsi alla fuga e mettersi in salvo ma soprattutto mettere in salvo la figlia. Strinse le potenti mascelle attorno ad una coscia della preda, bilanciando il peso, e strattonò con tutta la forza di cui era capace per trascinarlo sulla balza. Anche la figlia aiutava, ma i suoi piccoli denti riuscivano ad afferrare solo la stoffa della sahariana. Alla fine riuscirono nel loro intento, e, quasi un naturale sfogo di compiacimento, i loro ridenti  mugolii sembravano irrefrenabili e non avere fine. Agostino avvertì la potente stretta delle mascelle della Jena madre attorno alla sua coscia, avvertì i denti che affondavano nella sua carne, ma non sentì alcun dolore. Quella parte del suo cervello deputata alla sensazione del dolore non si era ancora svegliata, ma sentì, lungo la coscia, lo scorrere caldo del suo sangue che inzuppava quel che rimaneva dei suoi indumenti da safari. Poi cadde il silenzio, un silenzio innaturale, come se fosse avviluppato nel nulla di un buio impenetrabile e dal calore insopportabile, ma era ancora vivo, sentiva il suo cuore battere, il solito cerchio alla testa, una forte pulsazione alle meningi. E sentiva parlottare. Ancora le Jene?  Non sembravano mugolii da bestie feroci, le risate sembravano più da esseri umani. Sentì sulla fronte qualcosa di fresco, di umido come se qualcuno, impietosito, gli avesse messo un panno bagnato di acqua fresca e strizzato. Quel fresco gli fece riprendere il resto dei suoi sensi. Sentì la sua voce che chiedeva di sapere dove si trovava.

Una voce di donna gli rispose che si trovava sul suo letto e che era stata una grande fatica rimetterlo sopra, imbrogliato com’era tra le coperte. E il sangue della ferita alla coscia? Ma quale sangue! “Ti sei fatto la pipì addosso, cadendo dal letto e ti sei fatto anche un bel bernoccolo alla fronte battendo la testa contro il comodino”.  E tutta quelle calura, quel cerchio alla testa? “ Febbre a quaranta, amore mio, febbre a quaranta e passa”!

Agostino finalmente riuscì ad aprire una piccola fessura dei suoi occhi e vide ai piedi del letto le Jene, le sue Jene, le più belle Jene della sua vita, ma………… addio Africa!

 

P.S. Quello che è capitato ad Agostino può capitare a tutti, ma fin che è così…..ci possiamo accontentare. Si può andare in Africa e tornare in pochi minuti! Qualche supposta di tachipirina e tutto passa.

 

Francesco Pellicanò 17-11-07